1. Dal Rizan al Grezot - 2. La zona abitata - 3. Da Poz a Santa Giustina - 4. Oltre il Borgo - 5. Dalla Cros ai Visenzi6. Dal Gomer a Ciavauden - 7. Dalle Fontanele alle Voltoline - 8. Dalle Sort al Rizan
Se potessimo osservare come si presentava il territorio di Dermulo duemila anni or sono, vedremmo ovviamente un paesaggio molto diverso dall’attuale. L’abitato era formato da poche casupole preesistenti all’arrivo dei Romani e per tale motivo fuori dalla maglia di centuriazione da loro introdotta. Le aree più comode intorno all’abitato, furono le prime ad essere ridotte a coltura. Verso Taio, il bosco aveva in gran parte già lasciato il posto alle coltivazioni, mentre, se ci si spostava a nord, erano più rari i campi coltivati. Col passare degli anni erano rimasti qua e là sul territorio dei rimasugli di bosco, specialmente lungo i rivi, o in zone particolarmente scomode. Tale situazione, ancora in essere alla metà dell’Ottocento, si trascinò per oltre un secolo, per poi mutare completamente. Credo di poter affermare che verso Sanzeno, l’antica Strada Romana passasse attraverso la località Ciaseta. Il toponimo è abbastanza eloquente e, infatti, nel luogo sono stati rinvenuti reperti riconducibili a tombe di epoca romana. E’ risaputo che i romani davano sepoltura ai loro morti, nei pressi del villaggio, o in corrispondenza delle strade, per cui vista la notevole distanza dal centro abitato, i rinvenimenti suggeriscono la presenza di un’antica via. La vecchia Strada Romana provenendo dal Ciambiel, lambiva il Gomer e raggiungeva la Ciaseta, per poi attraversare Ciavauden e portarsi a Sanzeno. Il Rio San Romedio veniva oltrepassato nel punto più favorevole, vale a dire poco prima degli attuali ponti della statale.[1] Ritengo quindi che il tratto Rizzai-Ciavauden della futura strada imperiale non esistesse, e che invece fosse esistito, anche se costruito posteriormente, il tratto di strada dalle Doivie fino all’imbocco della strada detta delle Ciasete”, la qual strada poi si innestava su quella proveniente dal Gomer per proseguire verso Ciavauden. A conferma di ciò, ci viene in aiuto anche la toponomastica che contrassegna il luogo Ciaseta, oltre che a valle, anche a monte della strada, tanto da trovare in un documento la specificazione “Casetta di Sotto”.[2] Che una zona avesse il medesimo nome sia a valle che a monte della strada, potrebbe essere un'ulteriore conferma che la strada stessa, benchè antica, fosse stata tracciata in tempi successivi all’attribuzione del toponimo. Si può notare anche che a nord della località Fontanele e Cianvecel, la strada imperiale corresse esattamente sul confine tra il territorio di Dermulo e Coredo e poi su quello fra Sanzeno e Coredo. Ai margini delle strade si incominciò ad estirpare il bosco e a ricavarne aree coltivate che con il passare degli anni divenivano sempre più ampie. Già nel XII secolo, quando i signori di Denno avevano i dermulani come servi, si poteva riscontrare una situazione molto simile a quella odierna. Si stavano infatti ultimando la maggior parte delle grandi bonifiche dalle quali si erano ricavati nuovi terreni coltivabili, contraddistinti da toponimi quali Ronc, Raut e Noval, che bene spiegavano la loro origine. Gradatamente le persone di Dermulo che inizialmente erano serve, raggiunsero lo status di liberi, passando per quello intermedio di semiliberi, per cui furono in grado di acquistare la terra dai vari signori possidenti.[3] Gli appezzamenti comunque erano suddivisi fra pochi proprietari ed avevano superfici molto più ampie rispetto a quelle che avrebbero avuto in futuro. A partire dal Seicento, ma ancora più marcatamente nei secoli successivi, anche a causa dell’aumento demografico, gli appezzamenti furono frazionati perdendo la primitiva integrità. Esistono, o meglio sono esistiti fino a non molto tempo fa, due grandi terreni preservatisi dal frazionamento per essere essi appartenuti a masi: il terreno alla Cros (p.f. 286) che misurava circa 15.000 mq e quello al Loc misurante circa 22.000 mq. Di altri terreni, oggi frazionati, dei quali possiamo comunque agevolmente riconoscere l’estesa superficie originaria, darò conto nel proseguo della trattazione. Riguardo alla tipologia colturale, una prima fotografia completa del territorio la troviamo nel Catasto Teresiano di fine Settecento. Tale situazione è sicuramente sovrapponibile, senza variazioni significative, sia ai due secoli precedenti che a quello successivo. Il terreno coltivato era riconducibile ai seguenti tipi: orto, arativo, arativo-vignato e prato; il rimanente era invece bosco, pascolo e incolto. Erano abitualmente adibite al pascolo anche le capezzagne (cavazzare) e, anche per tale motivo nel primo catasto ottocentesco, spesso furono separate dal terreno principale, ricevendo un nuovo numero di particella fondiaria e un colore distintivo diverso sulla mappa. Negli arativi venivano seminati principalmente frumento, siligine (segale), avena, lente, milio, panizzo, grano saraceno (formenton), spelta e orzo. Disseminate qua e là nei campi, crescevano poi altre piante, quali gelsi (morari) noci, meli e peri, spesso menzionate in quanto rappresentavano un valore aggiunto del terreno. La superficie totale censita nel 1780 ammontava a 222.959 Pertiche Viennesi, corrispondenti a 800.422 mq. Di questa, la parte coltivata assommava a 532.660 mq pari al 66%. In riferimento alla sola parte coltivata, 148.679 mq erano di arativo, pari al 28%, 274.487 mq di arativo-vignato pari al 51%, e 108.209 mq di prato, pari al 21%. Come si può osservare, la maggioranza dei coltivi era costituita dall’arativo-vignato che prevedeva la suddivisione del campo in vanezze adibite alla semina dei vari cereali e stregle coltivate a viti.[4] Nel XIII e XIV secolo molti terreni erano coltivati esclusivamente a vite; nel secolo successivo invece, la vite fu relegata alle stregle, in quanto l’aumento demografico, con la conseguente maggior richiesta di risorse alimentari, impose di destinare più superficie alla coltivazione dei cereali. Affrontiamo ora, la descrizione del territorio catastale di Dermulo, come intraprendessimo una passeggiata, partendo dal confine con il comune catastale di Taio, più precisamente nella parte a valle dello stradone, nei pressi del rivo di Rizan, proseguendo a nord fino al territorio di Sanzeno, con ritorno verso sud a monte dello stradone ed infine, concludendo il percorso ancora una volta ai confini con il territorio di Taio. Nella descrizione il territorio è stato diviso in otto porzioni, sulla falsariga delle altrettante contrade ottocentesche.
1.1. RIZAN
Nei pressi del confine con il comune catastale di Taio, i terreni sono
denominati con lo stesso nome del rivo, ossia Rizan. In particolare, la parte a
valle della strada imperiale era detta Rizan di Sotto. I prati e i boschi ivi
presenti appartenevano fin dai primi anni del Cinquecento alla
famiglia Inama di
Fondo e, tranne una parte che per divisioni ereditarie ne fu sottratta, pervenne
poi alla famiglia Emer. Interessante notare che, l’odierna strada statale in
questo tratto, provenendo da Taio calcava a grandi linee, e questo fino in
corrispondenza del bivio per la via Strada Romana, l’antica via imperiale. Più a nord le campagne sono attraversate dal Rivalent, rigagnolo oggi quasi scomparso che nasceva poco sopra in località Somager. Prima di gettarsi con una piccola cascata nella località Pradi, il rivo attraversava il luogo detto Sass. Alla sinistra orografica del Rivalent, il luogo era detto Raut da Ral, ma anche più specificatamente Sass (l’antico possesso vescovile), mentre alla destra, si trova la zona di Sass propriamente detta che si estendeva fin quasi alle prime vecchie case di Dermulo, per una superficie di circa un ettaro. In questo appezzamento, antica proprietà Inama, oltre alla vite coltivata a stregle, nel Settecento sono documentate altri tipi di piante, quali peri, meli, noci, olmi e gelsi. Su tale fondo era anche radicato un aggravio di una frachela di olio di oliva da fornire alla chiesa di Dermulo.[5] A nord di Sass, troviamo i terreni denominati Sota le Ciase, le quali case erano propriamente le antiche case della famiglia Inama. In verità con case, si poteva intendere l’abitato, come infatti si è riscontrato con gli affini toponimi Sopra le Case e Dietro le Case. Ancora più a nord, oltre le case, i terreni stretti fra il bosco e la strada comune si restringevano fino a terminare con la località detta Coa. Qui, fatta eccezione alle tre particelle boschive 142, 143 e 148, di proprietà comunale, il bosco detto “zésa o zéson” degradante verso la Strada dei Pradi, apparteneva alla famiglia Inama. Nei documenti di divisione fra i fratelli Inama a fine Seicento, ma anche in quelli più recenti di metà Ottocento, risulta spesso citato, per localizzare meglio i terreni, un sentiero. Oggi non è più riconoscibile, ma si intuisce dai sopraccitati atti, che percorrendo in direzione nord-sud la zona Sota le Ciase, permetteva di raggiungere i vari appezzamenti di proprietà, senza calpestare i coltivi. Nel Cinquecento questa parte di paese interessata dalle case n. 26-27, 7-8 e 1, 2-3, 4 e i relativi terreni a monte e a valle, formava un “distretto” in mano alla famiglia Inama, tantè che era chiamato “Contrada degli Inama” (Notizia riportata da Hanns Inama Sternegg in “Geschichte aller Familien Inama” di cui non ho trovato riscontro in altri documenti). Sicuramente una grande porzione derivava dagli antichi possessi di famiglia, ma alcune case e terreni furono invece acquisiti da altre famiglie, fra le quali sicuramente i Pret, i Massenza e i Cordini.
A valle della terra
coltivata che in tale luogo, come superficie, aveva già raggiunto la massima
espansione possibile oramai da diversi secoli, degradavano i boschi e gli
incolti, sempre meno impervi man mano che ci si spostava in direzione nord,
verso il paese. La località era denominata genericamente Sotto Sass, ma
all’interno di questa si distinguevano alcuni microtoponimi quali, i Grezi, la
Crona dele Marzole e la Bertolda. Un Bertoldo fu sicuramente il proprietario del
bosco oggi contrassegnato dalle p.f. 73, 74,
75, 76, 77,
78, e 79. A Dermulo il
nome Bertoldo, almeno a partire dai primi anni del Cinquecento, può considerarsi
un unicum, per cui possiamo riconoscerlo in Bertoldo Cordini. A valle della
Bertolda troviamo la Crona dele Marzole, bosco scosceso appartenente ai
proprietari del terreno alle Marzole. Questa parallelità fra i proprietari delle
Marzole e della Crona, ad un certo punto si perse, e forse, essendo stata una
convenzione non scritta, fu abbandonata, complice anche lo scarso valore e
interesse riservato a quel luogo impervio di difficile accesso. 1.2. RAUT DA RAL E SASS A sud del Rivalent, a valle della strada imperiale, si estendeva verso il rio Rizan, la località detta Audaral. Anche in questa zona la mensa vescovile aveva delle proprietà delle quali abbiamo riscontro fin dal 1275, con la citazione di due terreni al Novalle de Rallo. Tramite documenti successivi, dove oltre ai confini, almeno in un’occasione il luogo fu descritto come “in Ual da Ral ovver in Sas”, è stato possibile collocare esattamente le proprietà vescovili a sud del Rivalent, e riconoscerle in una parte delle odierne p.f. 49 e 50. Nel 1510 Giovanni Mendini affittuario del terreno, pagava alla mensa un moggio di avena e due quarte di siligine. Nell'ultimo quarto del Cinquecento, quando il campo era in possesso di Leonardo Endrizzi, l'obbligo di corresponsione della tassa gafforiale fu spostato su un altro terreno denominato alla Preda, per cui Sass cessò di comparire nelle successive investiture. All’epoca, rispetto a quanto appare presentemente, il luogo era suddiviso in senso longitudinale e dalle indicazioni sui confinanti è stato possibile individuare il terreno della mensa, in quello situato più a valle, verso il bosco. Quasi tre secoli dopo, il Catasto Teresiano palesava la medesima situazione, per cui si ritrovavano possedere l’ex terreno della mensa, Romedio Maria Mendini, e quello adiacente, presso la strada imperiale, Giovanni Vigilio Thun. L’unificazione dei due terreni sembra sia avvenuta solamente nel primo quarto dell’Ottocento ad opera di Giovanni Maria Rosetti di Taio, acquirente delle due parti. Dalla seconda metà del Settecento e per circa ottant’anni, la zona dell’Audaral fu proprietà esclusiva di Giovanni Vigilio Thun e di Romedio Maria Mendini, tanto che, nel più volte citato Catasto Teresiano, i due si suddividevano il possesso di campi e boschi. Dai pochi documenti disponibili, comunque, risulta chiaro come antecedentemente ai Mendini e ai Thun, spetasse alla famiglia Inama il primato di posseditrice. Lo stesso terreno della mensa alla metà del Cinquecento apparteneva al notaio Gaspare Inama. Per la zona del Raut da Ral propriamente detta e quella immediatamente più a sud, si possono intravedere delle probabili divisioni tra fratelli, che sono un chiaro indizio sulla precedente integrità del terreno in mano sicuramente a loro padre. Il boschivo, prativo e streglivo (odierne p.f. 11 e 12) che dal Cinquecento, e fino ai primi anni del Settecento, apparteneva ai discendenti di Marino Inama, pervenne poi ai Thun dopo una parentesi Panizza. Esso si presenta morfologicamente diverso rispetto a come appariva fino ai primi anni del Novecento, quando seguiva la stessa posizione ribassata rispetto alla strada riscontrabile nei terreni che lo precedevano e lo seguivano. Il luogo fu scelto come discarica per il materiale di risulta dello scavo effettuato intorno al 1930 per la costruzione dell’edificio ora ospitante il Consorzio Agrario di Bolzano. A valle della zona coltivata c’era il bosco, pure proprietà Mendini e Thun e più sotto, il dirupo, o “sasso” come veniva chiamato, che separava la località Pradi.
1.3. PRADI Fin dal Trecento detenevano possessi ai Pradi i dinasti di Castel Valer. Tali possessi furono poi ampliati dagli Spaur nel primo trentennio del Cinquecento, mediante acquisizioni di terreni limitrofi appartenenti alla famiglia Cordini di Dermulo. In quelli anni la zona dei Pradi fu oggetto di una diatriba fra i dermulani e gli Spaur, in quanto questi ultimi volevano impedire il passaggio con i carri attraverso i loro prati da parte dei primi. Non solo, mettevano pure in discussione l’antico diritto di pascolo che per consuetudine secolare si esercitava su tutti i prati, anche di proprietà privata, dopo la raccolta dell’ultimo fieno. Per la risoluzione della controversia era intervenuto anche il regolano maggiore di Dermulo, ovvero Giacomo Thun di Castel Bragher e, anche se non siamo a conoscenza dei particolari, si adivenne ad un compromesso. Per quanto riguardava il passaggio con i carri fu deciso che questo potesse avvenire solamente dopo che i prati Spaur fossero stati falciati. Questa situazione ci fa capire che gli Spaur possedevano una porzione di prato che doveva essere quantomeno centrale rispetto agli altri proprietari. Infatti considerando che l’unica strada possibile per raggiungere la zona, proveniva da nord, giocoforza chi possedeva i prati più a sud, verso il Rizan, doveva attraversarne le altre parti. La situazione è suffragata anche dalla descrizione confinaria in occasione di varie compravendite. Interessante è anche poter affermare, grazie al documento redatto con gli Spaur nel 1537, che a Feuril (ai Pradi) avevano possessi le famiglie Cordini (con Cristoforo e Simone), Inama (con Michele, con i figli del fu Marino, con Leonardo e con gli eredi di Giovanni Inama) e Barbacovi (con Romedio). E’ inoltre possibile risalire a proprietari precedenti grazie ad altri documenti, ovvero per i Cordini ai fratelli Gaspare e Nicolò e quindi probabilmente al padre Antonio, per gli Inama a Salvatore, Marino, Giovanni fu Inama e Giovanni fu Vigilio I, e per i Barbacovi a Nicolò Mendini, suocero di Romedio.
Per quanto riguardava il diritto di pascolo nel documento
non v'è menzione ma sicuramente si continuò con gli antichi usi, tanto che
bisognerà arrivare al 1757 perché la richiesta di sgravio, degli allora
proprietari dei Pradi, (Giacomo Mendini, Giacomo Antonio Inama e
la chiesa di
Dermulo) fosse accolta dalla comunità di Dermulo, dietro esborso di una cospicua
somma di denaro. Riguardo ai toponimi, oltre al più antico Feuril riscontrabile
fin dal Trecento, sono ancora utilizzati l’altrettanto vecchio
Pramartinel e
anche Pradi. All’interno della zona insistevano molti altri micro toponimi, oggi
scomparsi, quali ad esempio la Busa, la Mosna, la Palù, l’Ischia, Ischietto, la
Coda, il Pradapont, Sota al Lez, Sora al Lez, ai Fuganti. Molto interessante è
Pradapont, toponimo ricomprendente anche Ischia e Ischietto, che si estendeva
con una superficie di circa diecimila metri quadrati, a nord del
Rivalent.
Pradapont ci testimonia la presenza di un ponte, oggi scomparso, che permetteva
il collegamento con la prospiciente zona dei Molini, sul territorio di Tassullo.
I signori di Castel Valer ne avevano promosso la costruzione dopo la seconda
metà del Quattrocento, per raggiungere agevolmente i loro prati e trasportare il
fieno al castello. Il ponte di costruzione lignea, come insegna la storia di
altri manufatti gettati a poca altezza sul livello delle acque, aveva una vita
abbastanza precaria perché in balìa delle piene del Noce, per cui è da credere
che sia stato distrutto e ricostruito molte volte e, infine, non più
ripristinato. All’abbandono ha sicuramente contribuito il calo di interesse da
parte di Castel Valer per la zona dei Pradi che sfociò nell’alienazione dei loro
possessi. Per quanto riguarda i dermulani, si accontentarono di utilizzare altri
percorsi pedonali quali il sentiero di Scol. Il toponimo
Pradapont, vivo fino
alla fine del Settecento, ci ha permesso di conoscere dell’esistenza del ponte,
e di individuarne la precisa localizzazione nel prato detto Ischia,
contraddistinto dalle future p.f. 97 e 98. La presenza di due ischie nel Noce,
facilitava il passaggio e permetteva di ridurre la gittata del ponte,
spezzandola di fatto in tre tronconi. I dermulani si servivano del ponte come
via più breve per guadagnare la sponda di Tassullo, in alternativa al sentiero
che passava per l’Eremo di Santa Giustina,
essendo Pont Aut più lontano da
raggiungere. Non escluderei anche che il ponte fosse interessato da un discreto
traffico per la presenza, quasi dirimpettaia del molino detto di Ploà. Sul
finire del Cinquecento gli Spaur alienarono i loro terreni ai
Pradi, e la
famiglia Cordini di Dermulo rientrò in possesso degli antichi averi che in
passato erano stati ceduti a Castel Valer. Ma anche le fortune dei Cordini
stavano inersorabilmente scemando e si erano affacciati come acquirenti del
luogo gli Inama, gli Slucca e i
Panizza, quest'ultimi pure imparentati con gli
stessi Cordini. Alla metà del Seicento tutta la zona prativa era suddivisa fra
Silvestro Inama, Giovanni Antonio Panizza, Simone Slucca e Baldassarre Cordini.
La nobile famiglia Slucca originaria di Malè e residente a Taio, possedeva
un’ampia parte di prato localizzabile nei pressi del lavatoio. Nella
seconda metà del Cinquecento troviamo prima un Antonio e poi un Simone Slucca
capitani a Castel Bragher, per cui il suo radicamento a Taio fu dovuto a tale
mansione. In porzioni e tempi diversi tra il 1663 e il 1713 il prato fu venduto
a Silvestro Inama e a don Pietro Panizza. Successivamente, dopo varie
acquisizioni, rimasero possessori quasi esclusivi i discendenti di Silvestro
Inama, in particolare, il facoltoso Giacomo Antonio di Taio che negli anni
Settanta del Settecento, aveva acquisito anche la parte dello zio don Pietro.
Nel 1750 Giacomo Antonio, per quanto disposto dal padre Silvestro, donò alla
chiesa di Dermulo un prato al
Pradapont giacente ai piedi del
Doss. La chiesa
poi lo diede in locazione perpetuale alla famiglia Chistè, la quale
affrancatasi, lo possiede tuttora. Giacomo Antonio non ebbe discendenti per cui
nel testamento beneficiò il suo figlioccio Domenico Panizza. Quest’ultimo
quindi, oltre al grande bosco detto Bos-c Lonc, costituito dalle
pf. 37 e 38,
divenne proprietario della futura p.f. 87. Giacomo Antonio aveva una
predilezione pure per Giovanni Francesco Inama, stipite delle famiglie
soprannominate “Rodari”, al quale lasciò una parte di casa a Dermulo (futura
casa n. 27), qualche terreno e una cospicua parte di prato ai
Pradi. La stima ed
il rispetto era reciproco, tantochè il primogenito di Giovanni Francesco
ricevette il nome Giacomo Antonio. Nel 1808 tale prato, riconoscibile nelle
future p.f. dal n. 88 al n. 98 fu poi suddiviso, fra i
cinque figli maschi Giacomo Antonio, Giovanni, Baldassarre, Pietro e Antonio.
Ferdinando Inama, nipote di Antonio, fu manente della
famiglia Panizza e intorno
al 1910 acquistò dai proprietari il grande prato ai
Pradi costituito dalla
p.f.
87. Dopo la morte di Ferdinando il prato fu diviso fra i suoi figli Felice,
Giacomo e Lorenzo. 1.4. TRAINA Risalendo la ripida strada che dai Pradi porta a Dermulo, a monte della strada si incontra la località Doss, caratteristica baulatura coperta da bosco che è delimitata a sud dal Rivalent e a nord dalla Roza del Tez. In passato questa zona era sfruttata principalmente come pascolo, ma nel 1893 e 1894, furono eseguite delle opere di contenimento del terreno e messe a dimora molte piante di bagolaro che in quel difficile periodo, furono utilizzate con profitto per la costruzione di manici di frusta, sia in paese che nei numerosi laboratori di Taio. Alcuni di questi terrazzamenti si possono intravedere ancora oggi. Sulla parete rocciosa nei pressi della Roza del Tez, si può scorgere un’apertura naturale chiamata Bus dele Angane. A valle della strada oltre la Roza del Tez, salendo verso Dermulo troviamo la località Traina che con il suo terreno scosceso degrada fino al Noce. Nel 1573 il luogo che fu proprietà della mensa vescovile di Trento, fu annesso alle pertinenze del mulino di Plouà sul tenere di Tassullo e successivamente fu ceduto a privati di Dermulo. In passato il toponimo Traina ricomprendeva anche la futura p.f. 145, (fino a qualche decennio coltivata a vigneto e detto Vignal), proprietà Emer. Più oltre troviamo il Grezot contraddistinto dalla p.f. 147. Questo terreno abbastanza pendente, incuneato fra il Pissaracel e la Strada dei Pradi, non presenta una felice esposizione essendo rivolto a nord. Fin dal 1510 il Grezot apparteneva a Salvatore Inama della linea di Rigolo, ma alla fine del Cinquecento era già transitato alla linea di Gaspare e in parte lo è ancora oggi. A valle del Grezot e di Poz i boschi e incolti degradanti verso il Noce, contraddistinti dalle p.f. 202 e 203, sono denominati Scol. Essi, assieme ad un bosco alle Fasse (p.f. 228) ed alla zona di Traina (p.f. 138) erano pertinenti del vecchio mulino detto di Plouà.[6] Tale mulino era proprietà da tempo immemorabile dei dinasti di Castel Valer e vi rimase fino al 1606 quando fu venduto ai Firmian. La giurisdizione di Plouà rimase però prerogativa degli Spaur. Il mulino, localizzato in riva al Noce sul territorio di Tassullo dirimpetto alla località Traina, da tempi antichi veniva dato in locazione perpetuale.[7] Uno degli ultimi locatari fu un Francesco Pinamonti di Tassullo che nel Catasto Teresiano figura proprietario dei boschi di Scol e anche della località Traina. Il bosco delle Fasse fu invece alienato nel 1583 ad Ercole Inama di Dermulo.[8] Sicuramente i mugnai di Ploà avendo la necessità di raggiungere i loro boschi sul territorio di Dermulo, utilizzavano delle passerelle sul Noce, molto probabilmente localizzate in prossimità delle due iscle, poco più a nord del mulino. Una volta giunti sulla sponda opposta c’era anche la possibilità di raggiungere Dermulo, sbucando nelle campagne di Poz. Allo stesso modo non è escluso che i dermulani utilizzassero questa via per portare al mulino il grano e ritornare con la farina. In alternativa esisteva la Strada dei Pradi che guadagnava il ponte nella località Pra da Pont e attraversando il Noce permetteva di raggiungere agevolmente il mulino. 2.1. IL LUOGO AGLI ORTI
Il luogo denominato “ai Orti” o “Orti alla Crosara” è costituito
da una striscia di terreno confinato da ovest e da sud dalla via pubblica, da
nord dalla via adducente alla casa n. 25 e a est dalle proprietà della stessa
casa 25. Tale delimitazione molto particolare, (la via imperiale e il terreno
del maso Betta) ha permesso di tracciare con estrema sicurezza i vari
frazionamenti e relativi cambi di proprietà susseguitisi negli anni.
La porzione centrale degli orti, individuabile nelle p.f. dal n. 155 al 158, apparteneva alla casa n. 7-8, ossia alla famiglia Pret; quella un po’ più a sud, contraddistinta dalle p.f. dal n. 159 al 161 e parte della 162 era prerogativa delle case 2-3, quindi della famiglia Inama. Infine l’altra porzione della p.f. 162, all’angolo delle due strade era di proprietà comunale. Con il procedere degli anni anche gli orti, similmente agli altri terreni, hanno subito divisioni e frazionamenti. Nel 1552 il notaio Gaspare Inama acquisiva la porzione meridionale dell’orto della famiglia Pret, da Tommaso, individuabile nelle future p.f. 157 e 158. Questa compravendita ci chiarisce sul motivo della notevole e inusuale distanza che aveva l’orto dalle case n. 1 e 4, possedute e abitate dal notaio Gaspare. Alla morte di Gaspare le case n. 1 e 4 pervennero in eredità ai suoi figli Ercole e Antonio, e dopo di loro passarono ai Guelmi di Scanna e agli Endrizzi. Gli orti sopra accennati seguirono la stessa sorte delle case. L’altra porzione dell’orto Pret (p.f. 155 e 156) fu acquisita assieme alla casa n. 7-8 da Valentino Inama. La porzione giacente a sud dell’appena citato orto, la troviamo ancora integra intorno al 1680 e in mano a Vittore Inama, dopodichè fu spezzettata in più parti in seguito alle sopraggiunte divisioni ereditarie. Dopo il 1860 appare nelle località ai Orti un nuovo orto, proprietà di Antonio fu Giovanni Francesco Inama e poi dei suoi figli Giovanni e Giuseppe. A differenza degli altri però si presentava isolato a valle della Crosara. Nelle divisioni successive poi pervenne ai nipoti di Giuseppe e specificatamente a Giacomo figlio di Ferdinando che dopo aver costruito sul terreno un fienile, lo vendette alla famiglia Zanon. Domenico Zanon infine demolì il fienile e costruì sul sedime del vecchio orto la sua nuova casa.
In prossimità degli Orti, confinato dagli orti stessi e racchiuso dalle strade pubbliche, e verso nord dalla Pontara, troviamo quella che si poteva in passato definire “la contrada dei Cordini”. Tale famiglia era infatti proprietaria dei suddetti spazi che comprendevano tre case, orti, broili e prati. La case più antiche erano le case n. 23 e 24 mentre la n. 25 fu costruita in tempi successivi, ma comunque già esistente alla metà del Cinquecento. In passato una stradina consortile si dipartiva circa a metà della Pontara e proseguendo verso sud, in direzione parallela con la sottostante strada pubblica (odierna Via Strada Romana), sbucava davanti alla porta della futura casa n. 25. Tale stradina permetteva anche ai proprietari della casa n. 24 di raggiungere il così detto broilo, chiamato anche “broiletto alli Cordini” (attuale p.f. 150), nei pressi della Pontara che era pertinente alla casa. Nel 1770 i fratelli Antonio, Giovanni e il nipote Giovanni Battista Inama (ai quali era pervenuto dal notaio Baldassarre Bergamo) vendettero il broilo a Romedio Maria Mendini proprietario delle casa n. 23, per cui dopo tale data la stradina consortile perse la sua funzione. A valle delle case c’erano anche due orti dove nel Seicento è documentata la presenza di una pianta di ciliegio e una di pero. L’orto sotto la casa n. 24 (p.f. 170) oggi è di dimensioni molto ridotte rispetto a quelle che aveva in origine, in quanto in tempi recenti è stato utilizzato per ampliare la casa stessa. La casa n. 25 detta “la casa nova dei Cordini”, rimase in mano della famiglia fino a circa il 1570 in quanto fu poi alienata ai Betta di Castel Malgolo assieme ai vari terreni. Detta casa rispetto alle altre della famiglia, aveva la disponibilità di molto terreno adiacente: una porzione a sud e a valle della località ai Orti costituito dalla p.f. 153 ed un altro a nord, contraddistinto dalla p.f. 152, racchiuso fra l’odierna Via Strada Romana e le case n. 23 e 24, chiamato per questa caratteristica Clesura. A monte delle due case sopradette, invece, il terreno formato dalle future p.f. 171, 168, 169, 785 e 786, apparteneva alla famiglia Pret che abitava nella vicina casa n. 7-8. Più a nord all’incrocio della strada imperiale con la via comune che portava al Ciampet (p.f. 173, 787), la proprietà, che era della vicina casa al Castelet, transitò nel 1774 alla famiglia Betta.
2.3. DAGLI ORTI ALLA PRAIOLA A nord della casa n. 23, sulla piccola piazza (Splazzol) ivi esistente, venivano tenute fin dai tempi più antichi le riunioni regolanari. Nei pressi, presumibilmente nella seconda metà del Cinquecento, fu edificato un capitello la cui origine ci rimane sconosciuta. Forse l’edicola è stata costruita dalla comunità di Dermulo come ex voto, per lo scampato pericolo durante l’imperversare di una delle numerose epidemie di peste che flagellarono l’Europa nei secoli scorsi. La prima attestazione risale comunque agli atti visitali del 1649. In quell’anno infatti, i rappresentanti vescovili rilevarono il grave stato di deperimento in cui versava la costruzione, tanto che ne avevano sollecitato la ristrutturazione o in alternativa la demolizione. Questa circostanza oltre a confermarci l’antichità della costruzione, ci rende edotti dell’appartenenza alla comunità del manufatto, sul quale altrimenti, la delegazione vescovile non avrebbe avuto competenza. Il dubbio su una committenza privata del capitello poteva esserci in quanto il terreno sul quale sorse (odierna p.f. 177), apparteneva in antico alla famiglia Cordini, e tuttora è in mano ai proprietari della vicina casa n. 41. Nel Seicento nei pressi del capitello cresceva una nogara, la quale dava un valore aggiunto al terreno. Nel 1908 la rappresentanza comunale per celebrare i 60 anni di reggenza dell’imperatore Francesco Giuseppe, fece mettere a dimora una pianta commemorativa. Per l’occasione fu scelto un tiglio che inspiegabilmente è stato tagliato nel 2024. Il terreno racchiuso a ovest dalla Pontara, a sud e a est dalla strada imperiale e da nord dal rivo Pissaracel, apparteneva da tempi antichi alla mensa vescovile.[9] Al centro di questa fascia di terreno sorgeva l’antica casa sede del maso, denominata al Castelet. A est della casa il terreno si assotigliava sempre più, fino a culminare nella Praiola, nei pressi del ponte della strada imperiale sul Pissaracel (a est dell’attuale casa Maccani). Il ruscello proveniente dalle Voltoline scorreva abbastanza profondo e la sponda sinistra risultava molto più scoscesa rispetto a quella destra. In paese, il rivo poteva essere attraversato agevolmente in due punti, uno nei pressi della vecchia chiesa e l’altro sulla strada imperiale, fra il lembo a est della Clesura e la Praiola. Questa zona oggi ha letteralmente mutato volto. Oltre alla costruzione delle case n. 35 (ex casa Manzoni) e n. 38 (attuale Albergo Victory) a est dell’antica casa al Castelet e la casa n. 29 (odierno negozio Maccani), la valle formata dal Pissaracel è stata progressivamente riempita con vario materiale fino a formare l’odierna spianata davanti all’albergo Victory e alla nuova chiesa parrocchiale. Sul luogo negli anni Sessanta del Novecento, fu eretta la nuova scuola elementare che è stata recentemente demolita per lasciare posto alla nuova casa sociale. Come detto, il riempimento non fu eseguito in un'unica soluzione, ma in fasi diverse. Fu dapprima creato uno stretto terrapieno, la cui traccia è sovrapponibile all’odierno tratto di strada statale dall’albergo alla chiesa, sul quale intorno al 1909, furono posati i binari della ferrovia Trento-Malè. La strada per raggiungere il ponte di Santa Giustina, inzialmente passava a monte della casa n. 29 (la quale era stata costruita originariamente come stazione di pedaggio per il ponte stesso) e poi girandovi intorno proseguiva verso Cles. In seguito, dopo lo smantellamento della linea ferroviaria Dermulo-Fondo-Mendola, e la creazione di un percorso autonomo per la Ferrovia Trento-Malè, la bretellina ferroviaria “albergo-chiesa” fu ampliata e utilizzata solamente come stradone. E proprio per smaltire il materiale ricavato nella costruzione della galleria ferroviaria “Rivo Pissaracel – Pergolete”, fu intubato il rivo e riempita la valle da esso formata, con il risultato oggi visibile. I toponimi Clesura, sulla destra del Pissaracel, e Praiola e Canevari sulla sinistra, scomparvero e furono obliati lasciando il posto a strade e piazzali.
I terreni a monte delle case n. 1, 2-3, 4, 5-6, 7-8, 23 e 24, erano denominati Sopra le Case o “Presso le case”. Dalla casa n. 1 si estendeva a monte un grande terreno della superficie di circa 10.000 mq antica proprietà della famiglia Inama (linea di Gaspare) che confinava a est con il bosco comunale. Di ciò oggi è rimasto ben poco, la superficie della p.f. 1/1 è occupata dal distributore ENI, mentre le future p.f. 782, 783 e 784, sono state occupate, dalla nuova strada di concorrenza costruita nel 1855, dai binari della Ferrovia Trento-Malè, dalla costruzione del magazzino oggi proprietà del Consorzio Agrario di Bolzano e infine dalla recentissima costruzione di alcune case a schiera. Nel 1855 a valle della nuova strada, nel tratto ricompreso tra le case n. 1 e 5-6, era rimasta una striscia di terreno che nel 1856 fu ceduta dall’allora proprietario don Carlo Martini, a Antonio Inama e Giovanni Endrizzi, possessori rispettivamente delle case 5 e 6, confinanti con detta porzione di terreno. Il venditore pretese però il diritto di passaggio per la stradina, in parte esistente e in parte da tracciare, sul terreno appena venduto che partendo dalla sua abitazione (casa n. 1) doveva raggiungere la strada comunale nei pressi della fontana, passando sotto il porticato (Porteget) della casa n. 6 di Giovanni Endrizzi. Negli anni Ottanta del Novecento l’allora proprietaria famiglia Pante, ostruì il passaggio del Porteget, a quel tempo solo pedonabile. La chiusura osteggiata dagli abitanti della zona, non fu del tutto legittima, perché anche se erano sopravvenute altre modalità di accesso, i proprietari della casa n. 1, come visto sopra, avrebbero avuto il diritto di passaggio. A proposito del modo di accesso alla casa n. 1, se a valle si poteva usufruire della strada imperiale, a monte, prima della costruzione della strada erariale nel 1855, ci potevano essere due possibilità. La più plausibile confortata anche da evidenze di mappa, era quella che passava tra le case 3 e 5 per congiungersi al breve tratto di strada comunale n.939. Questo spezzone di strada pubblica, isolato fra la proprietà privata è molto strano, per cui è da credere che da un estremo o dall’altro, in antico ci fosse stato un accesso pubblico. Tale passaggio ritengo fosse avvenuto dalla strada imperiale. La nuova strada erariale e la ferrovia hanno compromesso l’integrità anche del terreno a nord della casa n. 6, pure detto Sopra le Case, che degradava verso le case 24 e 23 e apparteneva alla famiglia Pret. Già prima dell’estinzione della famiglia, il terreno formato dalle future p.f. 171, 168, 169, 785, 786, era stato in parte ceduto a Michele Conzia di Ossana, abitante a Taio. Sulla p.f. 163 nel punto di confluenza fra le due strade comunali, agli inizi dell’Ottocento fu eretta una fontana che rimase in funzione per i censiti della Zità fino alla costruzione dell’acquedotto nel 1958. Da un documento del 1748 si evince che nell’orto della casa n. 4 (p.f.164) crescevano un ciliegio e un noce.
La zona a nord del Pissaracel, oggi denominata Borgo, era detta Al di là del Ri, o Sopra la Chiesa. Le costruzioni anticamente presenti erano relativamente poche, ovvero la chiesa e le case n. 22 e n. 20-21, poste rispettivamente a nord e a est della chiesa stessa. Poi verso nord si ergeva il colomello formato dalle future case 16-17-18-19 e li vicino la casa n. 15, oggi scomparsa; verso ovest una costruzione, dalla storia non del tutto chiara, occupante il sedime delle future case 13-14 e 28. Nei pressi di queste case, esistevano e in parte esistono tutt’oggi, diversi terreni coltivati a orto. Non per tutti gli orti menzionati nei vecchi documenti è stato possibile un’individuazione certa. Ciò è vero in particolare per gli ortivi pertinenti alla futura casa 13-14, contraddistinti dalle future p.f. 248 e 250. Se intorno al 1680 possiamo verosimilmente riconoscere come proprietari di tali orti, Giovanni Battista Inama e Udalrico Barbacovi, negli anni successivi, per frammentazioni ereditarie e varie compravendite, risulta quasi impossibile seguirne il destino certo. Cercando di localizzare i vari orti utilizzando l’unico metodo possibile, ovvero tramite i confini, ci si scontra con informazioni discordanti. La suddetta futura p.f. 250, sembrerebbe fosse occupata nella sua estremità a monte da un piccolo prato, mentre a valle, nei pressi della casa n.15, da orto. Tale orto, gravato per una somma di 70 Ragnesi, fu venduto all’eremo nel 1705 da Caterina vedova di Antonio Inama. Localizzare l’orto negli anni successivi nonostante la presenza di molti altri riferimenti risulta molto complicato. Nel 1741 l’eremo pose in vendita una sua parte di casa n.17, per poter affrancarsi, si disse, di alcuni capitali gravanti sull’orto. La situazione si è chiarita parzialmente nel corso dell’Ottocento, quando la p.f. 250 è stata progressivamente occupata dall’ampliamento della casa n. 28 e dalle sue pertinenze. Per altri orti, quali ad esempio le p.f. 243 e 246 localizzati a nord della casa n.17-18, è stato possibile riconoscere l’antica proprietà Massenza, poi Spaur, quindi eremitale e per finire della famiglia Inama “Fogia”. Le particelle 251 e 252 contigue alla casa n. 16 appartenevano pure alla famiglia Massenza, il cui ultimo proprietario fu Concio. In particolare per la p.f. 252 ritengo fosse il luogo nominato nel Seicento come Broilo. La p.f. 251 seguì una storia autonoma transitando a Tommaso Massenza e pervenendo alla famiglia Inama. La p.f. 247 che contraddistingueva l’orto a ovest della casa n. 15 è sempre stato ben delimitato e su di esso nel 1710, Maria vedova di Tommaso Massenza aveva fondato una messa perpetua annuale. Con la scomparsa della casa n. 15 e l’estinzione della famiglia Massenza, la zona pervenne al comune di Dermulo che poi la alienò a privati. L’orto più isolato p.f. 249 fu proprietà Inama e successivamente seguì i proprietari della porzione sud-ovest della casa n. 14. Per quanto riguarda la futura casa 19, nei documenti non è mai apparso un orto di sua pertinenza, ma è molto improbabile che ne fosse sprovvista, per cui ritengo che l’orto si trovasse sul lato a valle della casa, plausibilmente sulla futura p.f. 245, poi occupata dalla “ciasa nova”. Fra le vecchie case del Borgo, n.13-14, 15, 16-17-18-19, si districavano alcune strade più o meno ben tracciate. La via comunale provenendo da sud, attraversava il Pissaracel e, oltrepassata la chiesetta, girava a monte per portarsi alla piazzetta prospiciente il colomello ai Vicenzi. Da qui, la via pubblica si portava nel piazzale della casa n. 16, e poi proseguiva verso nord, attraverso il Porteget per raggiungere la località Marzole. Dalla casa n. 16 piegando invece ad est ed attraversando l’andito a nord della casa 15, ci si portava alla stradella comunale confluente nella via principale del Borgo. Dalla piazzetta presso la casa 17-18, si diparte un’altra via che oggi è comunale, ma che invece in antico sospetto fosse stata consortile. Essa costeggiando la Clesura, riceveva l’altra stradina comunale appena citata, poco più sopra l’odierna casa n. 28. Quest’ultimo tratto è oggi denominato Ciavada, in ricordo della presenza di una cava di materiale ghiaioso o sassoso che presumo si trovasse nel luogo occupato dall’odierno stradone. Non escludo che la cava fosse stata attivata alla fine dell’Ottocento, in occasione della costruzione del nuovo tratto stradale Dermulo – Ponte di Santa Giustina. Fra il Pissaracel, le pertinenze della casa n. 21, la strada consortale che fiancheggiava la casa 13-14 e poi comunale che incrociava lo strada per Sanzeno e il tratto della stessa strada fino al Pissaracel, si trovava il luogo denominato Clesura, antico possesso della famiglia Thun. Il toponimo oggi si è perso per il venir meno delle caratteristiche palesate dall’etimo, ossia “terreno racchiuso”, in quanto la zona è stata parecchio stravolta, particolarmente nella parte sud-est. Nel 1890 oltrepassato il rivo Pissaracel, dopo la casa n. 29, fu costruito il tratto iniziale della strada che conduceva al Ponte di Santa Giustina, abbassando di un bel po’ il livello del terreno in corrispondenza della casa Emer. Con la costruzione della Ferrovia Trento-Malè la parte della strada fu occupata dai binari e a valle della casa n. 29, fu gettato un terrapieno ad esclusivo uso del tram. Riguardo alla Clesura, ci sono da fare alcune considerazioni che mi costringono a rivedere alcune ipotesi esposte in merito alla localizzazione cinquecentesca del toponimo “Clesura al Castel”.[10] Il terreno, così come la futura casa di Castel Valer dal quale era circondato, è verosimile che fosse appartenuto a Domino, un personaggio vissuto a Dermulo nel 1275, la cui sostanza, dobbiamo arguire, pervenne poi in mano di Guarimberto II Thun (+ p.1301). A tale conclusione sono arrivato tenendo in considerazione i confini della casa al Castelet e le locazioni del maso di Castel Valer dalle quali emergono vari indizi su quanto ho appena affermato. Che l’acquisitore della zona fosse stato Warimberto II è dimostrato dal fatto che dopo la metà del Trecento troviamo proprietari i tre cugini Corrado, Warimberto III e Pietro, suoi nipoti. Il primo divenne proprietario della casa e di una piccola parte di terreno contiguo, mentre gli altri due si divisero la restante. La Clesura detta al Castel, perchè prossimità a tale luogo (la casa 9-12), veniva data in locazione con il canone annuo di 16 stari di frumento a qualche dermulano. Uno dei primi locatari di cui si ha notizia fu la famiglia Vicenzi che prima con Vincenzo, poi con Baldassarre, Vigilio e da ultimo, ancora con altro Vincenzo, ebbe l’utile dominio del terreno fino circa alla metà del Cinquecento. Da Vincenzo passò poi ai fratelli Pietro e Bertoldo Cordini con i quali aveva una non ben definita relazione parentale.[11] Nel 1571 risulta pagare i 16 stari di canone, Romedio Barbacovi i cui figli la possederanno almeno fino al 1595. Da circa il 1500 fino poco il 1550 però, la proprietà della Clesura (o forse di una sua porzione) passò dai Thun al notaio Antonio Gatta di Coredo, per poi tornare ai Thun fino alla fine del Seicento. Dopo di chè divenne proprietà Mendini fino quasi alla metà dell’Ottocento.
3.1. POZ
Oltrepassando il rivo Pissaracel, si incontra la zona di
Poz che abbraccia i
terreni confinanti con i boschi scoscesi di
Scol, con le
Fasse e con la
Strada Romana. Nei pressi della Fontanazza, perpendicolarmente alla via Strada Romana,
partiva la vecchia strada consortile che permetteva ai vari proprietari di
raggiungere i fondi sottostanti. In antico il toponimo Poz era circoscritto ai terreni nei pressi della Fontanazza, manufatto particolare a forma di cisterna, derivata presumo dall’originale pozzo. Erano denominate propriamente alla Fontana o Sotto Fontana le future p.f. 210 e 214 e anche la 220. I terreni più a valle invece erano detti Plantum, ovvero terreno piantumato e quelli in prosimità del rivo, “al Pissaracel”. Da due documenti trecenteschi, si evince che a Poz avevano possessi Federico di Tassullo, Pietro fu Simeone Thun e i dinasti di Castel Valer. Tali terreni erano sicuramente contigui e sapendo che la parte di Castel Valer corrispondeva alla futura p.f. 210, possiamo collocare gli altri, nella zona presso tale particella. A valle della casa n. 22, l’odierna p.f. 200/4 apparteneva alla famiglia Massenza, (nel Cinquecento a Gaspare Massenza) antico retaggio della comune origine con i Mendini, possessori della casa avita n. 22. Il terreno fu poi ereditato dal cugino Matteo Pret ed infine transitò agli Inama di Fondo. Questi ultimi, partendo da un antico piccolo terreno, presumbilmente pertinente alla casa n. 19, si sono resi protagonisti di svariate acquisizioni, culminate in quella che sarebbe stata la futura p.f. 200. Per tale motivo detta particella si presenta con un perimetro irregolare.[12]
La località Fasse si estende tra Poz e Lamport ed è costituita principalmente da terreni coltivati, ma anche da qualche bosco scosceso verso il Noce. Dalla morfologia delle particelle 225, 226 e 232 è possibile ipotizzare che in passato costituissero un terreno unico che dai documenti risultava in mano alla famiglia Cordini. Alla metà del Cinquecento, sappiamo per certo che il terreno contrassegnato dalle future p.f. 231 e 232, apparteneva a Simone Cordini, e la p.f. 225 a Martino Cordini. Ciò ci autorizza a pensare che tutto il terreno, comprese anche le due p.f. 226 e 227 poste fra le due porzioni citate, si possa far risalire all’antenato comune dei due Cordini ovvero Nicolò I. Di conseguenza spingendosi ancora più indietro, possiamo azzardare a riconoscere questi terreni, come appartenuti a Margherita figlia di Delaito, moglie di Nicolò Cordini. La famiglia Betta poi, come fece per altri beni appartenuti ai Cordini, acquisì queste proprietà. Verso la metà del Settecento però, alienò le p.f. 231 e 232, cosa rara, in quanto la storia dei Betta è stata sempre caratterizzata da acquisizioni. Non abbiamo il documento di tale compravendita che però, da altre informazioni, si può collocare dopo il 1723. Per quanto riguarda i contraenti possiamo ipotizzare Bonifacio Betta e Silvestro Inama III. Ancora alla metà dell’Ottocento, in questa zona non era stata stranamente sfruttata tutta la superficie disponibile per i coltivi. Specificatamente su gran parte della p.f. 228 e 229, a valle degli arativi, cresceva ancora il bosco e la 231 era ancora pascolo.
3.3. LAMPORT Dopo la località Fasse, a valle dell’odierna Via Strada Romana, si estende un terreno pianeggiante denominato Lamport, (attuali p.f. n. 267/1, 267/2, 268/1 e 268/2) confinato a est dalla strada pubblica, a ovest dal burrone e a nord dal bosco alla Cros. Circa la metà verso sud del terreno a Lamport, con superficie di 4 moggi (ca. 2.700 mq), fin dal Duecento era proprietà della mensa vescovile di Trento, alla quale il relativo l’affittuario doveva corrispondere annualmente una quarta di frumento, una quarta di siligine, due quarte e una minela di spelta. Per la rimanente parte a nord ho buone ragioni di credere che il terreno, almeno fino alla fine del Settecento, fosse in buona parte ancora coperto da bosco. Nel 1848 i possessori del terreno, Camillo e Giuseppe Mendini, grazie alla legge sullo “Svincolamento della Gleba”, ottennero l’esenzione dal versamento della tassa, contro la corresponsione della somma di 29 Fiorini. Alla metà del Seicento il terreno si presentava con sei stregle di viti e otto vanezze di arativo. Sulle mappe catastali, a valle delle due particelle di Lamport n. 267 e 268, è possibile constatare la presenza della p.f. 931, che secondo la convenzione numerica (e anche visiva) della vecchia mappa, corrisponde ad una strada comunale. Ad una prima osservazione la cosa risulta strana, perché la strada appare come uno spezzone isolato e senza nessuna continuità. Per tale motivo, considerata anche l’ubicazione, mi viene da pensare che la strada in realtà non fosse limitrofa al bosco, bensì si trovasse nella forra, ossia all’eremo di Santa Giustina. Ma questa ipotesi viene meno, constatando che la via lambisce la parte a monte della p.f. 275, e quindi, in realtà si trova sul ciglio del dirupo e non a livello del Noce. Quindi la spiegazione più plausibile è che sia un rimasuglio di una strada che anticamente, partendo a nord di Lamport, costeggiava a ritroso il ciglio delle campagne per servire i boschi e anche la parte di Lamport più a valle. A conferma di ciò bisogna dire che essendo una volta, le due principali particelle di Lamport (n. 267 e 268) non frazionate, non c’era la possibilità di raggiungere ad esempio le p.f. dal 272 al 275 e quindi ciò avveniva tramite questa strada segnata in mappa come comunale. Poi venendo meno questa esigenza per il frazionamento e per i proprietari che erano gli stessi dei terreni soprastanti, la strada è stata abbandonata.[13]
3.4. SANTA GIUSTINA (OLTRE LA CROCE) A ovest di Lamport e del grande terreno alla Cros, una striscia di bosco molto ripida, affianca la rupe sovrastante l’eremo, e termina restringendosi sempre di più, nei pressi del ponte di Santa Giustina. In passato tutta la zona boschiva appena descritta era denominata alle Sorti, al quale nome fu poi aggiunto “di Santa Giustina”, per distinguerle dalle altre “Sorti” poste sopra il paese. Nel Seicento il pianoro che si apre alla fine del sentiero dopo la croce, era già denominato Rauto o Rautel, per cui tradiva la sua origine di bosco. Il luogo era appartenuto a Vittore Massenza che poi lo aveva donato, prima di passare a miglior vita, alla mensa vescovile. Nel 1680 il terreno con adiacente una porzione di bosco, fu poi venduto agli eredi di Giovanni Battista Inama, i quali però, per saldare un debito con la stessa mensa, nel 1697 furono costretti a ritornarglielo. Contestualmente per volere dell’allora vescovo Giovanni Michele Spaur fu disposto che il terreno, descritto come de muri d'intorno cinto da due parti, dovesse appartenere all’eremo di Santa Giustina.. Nei pressi del sentiero una porzione di tale terreno fu in seguito convertita ad orto. Le p.f. 277, 278, e 279, oggi proprietà comunale, erano appartenute all’eremo e poi transitate alla chiesa probabilmente dopo il 1710, anno in cui fu fondata la prima primissaria. Stessa sorte dovrebbe aver subito il terreno costituito dalla p.f. 328. Era quindi denominata Santa Giustina, tutta la zona a nord del crocifisso e a valle delle strade n. 928, e n. 929 fino all’odierno ponte stradale. (In realtà sembra che una parte della futura p.f. 332, fosse denominata Pergolete). La costruzione del terrapieno d’accesso al nuovo ponte ferroviario, avvenuta all’inizio degli anni Sessanta del Novecento, ha reso inutilizzabile la strada n. 929 che si diramava dalla n. 928, poco dopo la croce. Di conseguenza non fu più possibile arrivando da Dermulo, raggiungere con i mezzi agricoli la parte posta a nord dei piloni del ponte, senza dover obbligatoriamente passare per la strada statale. Pedonalmente invece, ciò è ancora fattibile utilizzando il tratto iniziale del sentiero per l’eremo. La parte più a nord della lunga particella di bosco segnata con il n. 282, in passato era coltivata a vite, e il canone di locazione previsto doveva essere conferito ai padroni, in vino brascato. Alla metà del Settecento però non fu più possibile versare il canone in brascato per un non ben definito deperimento delle viti. Oltre al bosco (dove già in passato era documentato crescessero molte querce) nella località Santa Giustina erano presenti anche degli arativi che nel Cinquecento appartenevano alle famiglie Massenza e Cordini e nei secoli successivi ai Betta di Malgolo, ai Panizza di Taio e ai Mendini. Dai documenti del Sei-Settecento è emersa una suddivisione dei terreni che non collima con quanto rappresentato sulla mappa del 1859. Mi riferisco in modo particolare alla p.f. 328, la quale non si estendeva così a nord come mostrato dalla mappa, ma terminava grosso modo in dirittura del confine sud della p.f. 332. La conglobazione di questo terreno, di cui il primo proprietario noto fu Nicolò Mendini, avvenne per opera di Bartolomeo Mendini nel 1774. Bartolomeo all’epoca era affittuario del terreno della chiesa (p.f. 328 parte sud) e tramite una permuta, trasferì alla chiesa la sua p.f. 328 parte nord. Per tale motivo, la proprietà della chiesa appare come in mappa.
4.1. LOC
Oltre le case del Borgo nella zona denominata genericamente
Dietro alle
Case, si estende il così detto Loc, (toponimo che indica un campo destinato alla
coltivazione della vite) terreno pianeggiante legato alla proprietà della futura
casa n.19.
4.2 PLANTADIZ A monte del Loc, con una superficie di circa tre ettari e mezzo, si trova la località Plantadiz, delimitata a ovest dalla Strada delle Marzole e dal Ciasalin, a est dalla strada per Sanzeno e a nord dalle Bertuse. Nel 1294 un terreno “in capite de Plantadigo”, (in cima al Plantadiz) appartenente ad Enrico di Tavon, veniva dato in locazione perpetuale a Gisliberto di Denno. Il terreno descritto come terra vignata e grezziva con tre prati, confinava con Segalla, con il “dominus Odoricus Vahabogus” di Coredo, con Bonato e con Graziadeo. Nel documento purtroppo, non è menzionato il canone di locazione (forse tralasciato dal trascrittore) che ci avrebbe permesso di avere un’idea approssimativa sull’estensione del terreno. Fra i confini non appare la strada comune, per cui è verosimile che non si fosse trattato delle future Marzole. Nel corso del Trecento si riscontra la località Plantadiz in altri due documenti, uno del 1343 e l’altro del 1357. Il primo atto riguarda la locazione di un terreno da parte del pievano di Coredo a Benvenuta, moglie di ser Parisi di Dermulo, per il canone di mezza orna di brascato. Nel documento del 1357 invece, troviamo citati due terreni al Plantadiz che Michele Thun dava in locazione a Nicolò fu Delaito di Dermulo. Abbiamo altre notizie del Plantadiz a partire dalla seconda metà del Cinquecento, e da quanto trapela dagli scritti, la famiglia Cordini ne era già la consolidata proprietaria. Dai nominativi citati come proprietari o confinanti, possiamo accertare come fossero rappresentati tutti i rami originatisi dal primo Cordini di Dermulo. Il che ci fa supporre che il luogo fosse appartenuto al capostipite Nicolò, e quindi in precedenza, a sua moglie Margherita figlia di Nicolò fu Delaito. Morfologicamente possiamo suddividere la zona del Plantadiz in quattro grandi appezzamenti. 1) il terreno formato dalle p.f. 253, 254 e 255. E’ la parte più prossima al paese e conseguentemente quella che in seguito è stata interessata ad un’espansione urbanistica che negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, portò alla costruzione di tre nuove case (Emer, Chistè e Sandri). Oltre a questo, il luogo sul finire degli anni Ottanta dell’Ottocento, fu interessato dal passaggio della nuova strada di collegamento al ponte di Santa Giustina, per cui del terreno coltivato è rimasto ben poco. Nel Catasto Teresiano sia questa porzione che quella di cui parliamo più sotto al punto 2), risultavano appartenere a Romedio Maria Mendini. Riguardo però alla superficie attribuita è stato commesso un errore, in quanto dei circa i seimila metri quadrati apparenti, ne risultano mancare almeno altrettanti. In ogni caso per questa porzione non sono riuscito a reperire notizie antecedenti alla metà del Seicento, quando risultava proprietario Giovanni Antonio Panizza. Non credo comunque di sbagliare, se affermassi che il Panizza fosse venuto in possesso del campo in precedenza appartenuto ad un Cordini. Probabilmente, il campo doveva far parte della sostanza che fu di Nicolò V, il quale rendendosi irreperibile aveva lasciato molti insoluti, al punto che per soddisfare i creditori, si misero in vendita parecchi dei suoi beni. Fra questi beni, sicuramente alcuni pervennero a Giovanni Antonio Panizza e al nipote Pietro Lorenzo. Già nel 1690 figurava proprietaria la famiglia Mendini. 2) il terreno formato dalle p.f. 256 e 257. Di questa zona, dopo la metà del Cinquecento, risultavano proprietari Vigilio Cordini e Baldassarre Cordini, per cui tramite altri documenti sono riuscito a capire che in precedenza, i proprietari erano i due fratelli Giovanni e Antonio II Cordini. Dai due fratelli ci fu il passaggio ai figli, rispettivamente Cristoforo e Simone I, quindi in seguito a Vigilio figlio di Cristoforo e a Baldassarre, nipote di Simone I. Negli anni successivi tutto il terreno fu trasmesso di padre in figlio nella discendenza di Baldassarre, compresa la parte che fu di Vigilio, fino ad arrivare all’ultimo decenio del Seicento, in mano ai due fratelli Stefano Carlo e Simone II Cordini. Simone fu l’ultimo Cordini a Dermulo e il terreno pervenne ai primi del Settecento a Giacomo II Mendini. 3) il terreno formato dalle p.f. 258 al 264. Il terreno ricompreso fra le due strade consortili, contraddistinto dalle p.f. dal 258 al 264, si presume fosse stato proprietà di Delaito Cordini. Infatti lo ritroviamo poi suddiviso fra i suoi due figli Pietro e Giacomo. Sul terreno era stato assicurato un capitale prestato da Nicolò Morenberg, per il quale i proprietari dovevano corrispondere cinque orne di vino brascato. Un secolo dopo, nel 1688, troviamo la parte a monte del terreno in proprietà della confraternita del Santissimo Sacramento di Taio, la parte centrale della chiesa di Dermulo e quella a valle di Nicolò Mendini. La parte pervenuta alla confraternita fu in precedenza di Martino Cordini che morì intorno al 1595 senza discendenti. La parte centrale (p.f. 263) fu ceduta alla chiesa da Antonio Mendini VIII nel 1655, ed è attualmente occupata dal cimitero, per cui possiamo affermare con ragionevolezza che fosse in suo possesso, anche la parte a valle che poi nel 1688, troviamo a nome di suo figlio Nicolò. A sud del terreno, prima della costruzione del tronco di strada Dermulo-Ponte di Santa Giustina, esisteva una stradina consortile (in mappa n. 945) che dalla strada proveniente dal Borgo, permetteva di raggiungere la via imperiale per Sanzeno. Credo che la strada in passato avesse lo scopo di servire i terreni posti a sud della strada stessa, ovvero quelle porzioni della futura p.f. 257 divisa in direzione est-ovest, che da quanto emerso, nel Sei-Settecento appartenevano a proprietari diversi. 4) il terreno formato dalle p.f. 292 al 302. La parte più a nord del Plandadiz è oggi denominata Marzole (originariamente Mazzole) ed è confinata a est dalla strada per Sanzeno, a sud dalla Strada delle Marzole, a ovest dalla strada per Cles e a nord dalla località Bertuse e Cros. La strada di collegamento al ponte di Santa Giustina, costruita intorno al 1888, ha occupato gran parte della p.f. 293 e, di conseguenza, ha diviso in due porzioni la località, lasciandone a valle una piccola parte formata da una frazione della succitata p.f. 293 e dalla p.f. 292. Nel 1357 possiamo riconoscere la prima volta le Marzole, benché ancora denominate Plantadiz, in un documento mediante il quale Michele fu Simone di Tono dava in locazione a Nicolò fu Delaito, due terreni in questa località, confinanti da due parti con lo stesso Nicolò. Infatti l’utile dominio su tale terreno apparterrà agli eredi di Nicolò, ossia ai Cordini ma i proprietari saranno invece i Thun fino alla metà dell’Ottocento. Successivamente al 1357 tale situazione appare anche in un documento del 1586, dove il possessore Baldassarre Cordini, assicurava un prestito sui miglioramenti ricavati dal terreno. Nella descrizione dell’arativa e vignata, si accenna alla presenza di ben dieci stregle di viti, cinque stari di arativo e un piccolo prato. Che si parlasse di “miglioramenti” sta a significare che la proprietà del terreno non era del Cordini, ma di altri, specificatamente dei conti Thun. Molto probabilmente in questo periodo il terreno apparteneva ancora alla linea di Castel Thun, per poi transitare a Castel Bragher verso la metà del Seicento. Negli urbari più antichi di Castel Bragher non si riscontrano infatti notizie circa questo terreno. Il canone di affitto che doveva essere portato a Castel Bragher, ammontava a 20 stari di frumento e 8 Ragnesi in denaro. Il canone negli anni successivi venne suddiviso proporzionalmente fra i vari possessori. La comparsa del nome Mazzole, coincide con il rinnovo di investitura fatta dai Thun a Bartolomeo figlio di Giovanni Battista Inama nel 1675. Per tale motivo ipotizzo che Mazzol o Mazzola, (cioè martello, anche da scalpellino) potrebbe essere stato il soprannome dell’ultimo affittuario, plausibilmente un personaggio della famiglia Cordini. Nelle locazioni successive al 1675, furono investiti i discendenti di Giovanni Battista Inama. Nello specifico, nei primi anni del Settecento, il grande appezzamento di quasi due ettari era suddiviso fra i quattro figli del fu Giovanni Battista I: nell’ordine da monte a valle, Bartolomeo I, Michele, Valentino e Antonio I. Buona parte della porzione toccata a Bartolomeo, dislocata a monte e confinante con la strada imperiale, negli anni successivi si ritrova nominata al Poc. La qual cosa, mi induce a pensare che “Poc” fosse stato il soprannome di Bartolomeo Fuganti, genero di Bartolomeo Inama, più tardi possessore del terreno. La porzione localizzata all’estremità opposta, (sopra il Ciasalin), invece, era posseduta da Antonio I, mentre gli altri due fratelli Valentino e Michele, occupavano le porzioni centrali. Alla morte di Antonio I la porzione fu suddivisa fra i suoi figli: Marino, Giovanni Battista II, Bartolomeo II e Antonio. La parte di Marino e Antonio fu acquisita dagli altri fratelli, per cui troviamo possessori, come da investitura del 1744, Giovanni Battista e Bartolomeo. Nel 1777 la porzione di Bartolomeo II, localizzata all’estremità a valle della località Marzole, fu suddivisa fra gli eredi di Giovanni Battista II, ovvero Giovanni, Antonio e Giovanni Battista V, figlio del fu Giovanni Battista III. La mancanza di discendenti maschi da parte di Bartolomeo I e Valentino, determinò con il proseguire degli anni diversi cambiamenti. Se la parte di Valentino, posta a valle di quella del fratello Michele, fu verosimilmente acquisita dal fratello Antonio, quella di Bartolomeo pervenne alle due figlie, Maddalena e Domenica che erano convolate a nozze rispettivamente con Pietro Antonio Mendini e Bartolomeo Fuganti di Taio. Nel 1744 troviamo investiti dell’intero terreno: Giovanni Battista Inama, Pietro Antonio Mendini, Bartolomeo Inama, Gaspare Inama, Giacomo fu Michele Inama e Domenica moglie di Bartolomeo Fuganti di Taio. Nel 1787 l’appezzamento contemplava undici porzioni, delle quali furono investiti Giovanni Battista fu Giovanni Battista Inama (future p.f. 293, 295, 301 e 302), Giovanni fu Giovanni Battista Inama (futura p.f. 292), Giovanni Mendini a nome del suocero Antonio Inama (future p.f. 294 e 300), Giovanni Michele Inama (futura p.f. 296/1), Silvestro Inama (futura p.f. 296/2) e Pietro Mendini (future p.f. 298 e 299). Nell’Ottocento, quando il numero di particelle aveva raggiunto il quattordici, in seguito alla legge dello svincolamento della gleba, gli affittuari, per diventare proprietari dei terreni a tutti gli effetti, dovettero corrispondere ai signori di Castel Bragher una prestabilita somma. I Thun cedettero i diritti di riscossione di tale somma a Francesco fu Giuseppe Inama di Coredo che, fino al pagamento del debito, fece istituire sui terreni un’ipoteca. Relativamente al tipo di coltivazione, a parte le scontate stregle di viti inframezzate all’arativo (dove veniva seminato anche formentazzo), e a vari gelsi disseminati qua e là, ci sono giunte notizie sulla presenza di un prato (futura p.f. 301), di una pianta di ciliegio nella futura p.f. 296, e di un pero nella futura p.f. 300.
5.1. CROS
A nord del Ciasalin si incontra il primo
terreno denominato Cros, caratteristico per la sua ampiezza che, prima del 1889,
anno di costruzione della strada che porta al ponte di Santa Giustina, superava
i 15.000 metri quadrati. A nord del grande terreno appena nominato, si estendevano fino ai confini con il Ciambiel, varie strisce di campo arativo-vignato ma anche con gelsi e altre piante fruttifere, quali meli e peri. Il terreno formato dal numero di p.f. 318 al 323, posto a monte della strada comunale, formava in antico un’entità unica che possiamo forse attribuire al progenitore comune di Simone e Giovanni Massenza che troviamo possedere il campo nel Seicento. Il primo sembra possedesse tutto il terreno poi individuato dalle p.f. dal 318 al 320 che successivamente veniva suddiviso fra i tre figli. La parte a valle, toccata a Vittore pervenne alla mensa vescovile, la quale intorno al 1680 la cedette, assieme al terreno al Bertusel, al notaio Udalrico Barbacovi di Taio. Il notaio a sua volta, lo assegnò a Silvestro Inama II, come bene dotale della figlia Maria Barbacovi. Il pronipote di Silvestro alla metà del Settecento lo darà in dono alla comunità di Taio, la quale riscuoteva dal locatario pro tempore, due stari di frumento e uno di segala, come canone annuale. La parte centrale fu presumibilmente assegnata al figlio Simone e in seguito fu acquisita da Luca Massenza. La porzione più a monte toccò al fratello Giacomo. Quest’ultimo terreno dopo la morte del padre, pervenne alla figlia Caterina che nel 1671 lo alienò a Silvestro Inama II. Da quel momento il terreno fu appellato dalla famiglia acquisitrice, “alle Berte”, dal nome del marito di Caterina, tale Alberto Malfatti di Coredo. Le Berte poi pervennero a Vittore III, figlio di Silvestro e da Vittore ai tre figli Ottavio, Vittore IV e Giovanni Giacomo. Ottavio unificò il terreno con l’acquisizione delle parti dei fratelli e, nel 1714, alienò il tutto a Pietro Lorenzo Panizza. Molti anni dopo il nipote Filippo Antonio Panizza, fondò a Taio la “scuola per i fanciulli” e i due figli Antonio e Pietro nel 1799, donarono alla scuola stessa due stari di frumento, due di segale e uno di lente che annualmente si ricavavano come affitto perpetuale del terreno, allora posseduto da Innocente Massenza. Tra il 1852 e il 1859 ad opera dei fratelli Andrea e Felice Eccher, le varie porzioni furono accorpate, formando l’appezzamento riconoscibile nelle p.f. 318, 319 e 320. I problemi finanziari di Luca Massenza e dei suoi eredi, portarono sul finire del Seicento a dover alienare altre porzioni di terreno alla Cros. Giacomo Mendini, in quegli anni molto attivo nelle acquisizioni, diventò il nuovo proprietario dei campi. Nonostante le suddette vendite, grazie a vari contratti di locazione perpetuale, dalla metà del Settecento fino ai primi anni dell’Ottocento, i terreni furono usufruiti dai Massenza. Per le future p.f. 321, 322 e 323, Domenico doveva corrispondere tre stari e mezzo di segale e due di frumento. Nel 1803 Giovanni figlio del fu Domenico Massenza, vendette l’utile dominio ai proprietari Mendini. Oggi questi terreni si trovano attraversati dalla strada che porta al ponte di Santa Giustina e trasversalmente dall’imbocco della galleria della Trento-Malè. Spostandoci a est, le due p.f. 316 e 317 costituivano il terreno che Bartolomeo Inama aveva donato alla chiesa di Dermulo intorno1650 e che la nuova proprietà concedeva in locazione per il canone annuo di uno staro e due quarte di frumento e uno staro e due quarte di segale. A monte, l’ultimo terreno denominato Cros era la p.f. 312, proprietà della famiglia Betta. Quindi portandoci verso la strada per Sanzeno, con le p.f. dal n. 305 al 311 troviamo le Bertuse, plausibilmente acquisite dai progenitori di Silvestro Inama II a un Bertoldo (di cui Bertus era l’ipocoristico?). Non escluderei che il Bertoldo in questione fosse stato un Cordini e quindi ci fosse stata una continuità con la p.f. 312, pure antica proprietà della famiglia. Infine fra le Bertuse e la via per Sanzeno, troviamo il piccolo appezzamento denominato Greute, antica proprietà Massenza. Dai Massenza le Greute passarono ai Mendini e nel 1743 entrarono a fare parte del beneficio della chiesa lauretana di Castel Bragher. Detta chiesa incassava dal locatario il canone di uno staro di frumento, uno di segale e quattro Troni di denaro (compresa la parte del prato alla Mora appartenente allo stesso ente). Gli ultimi conduttori furono alla metà dell’Ottocento gli eredi di Giuseppe Tamè. Il toponimo Greute è molto interessante in quanto, se l’ipotesi etimologica è esatta, potrebbe essere l’antico nome di una più vasta zona comprendente tutte le Bertuse. Potrebbe essere successa la stessa cosa del toponimo Preda, attualmente relegato ad un piccolo frutteto, ma in passato designate una zona molto più ampia. Da quanto scoperto recentemente, l’origine del toponimo potrebbe essere suggestiva, infatti dopo essermi arrovellato in mille ipotesi per cercare l’origine in tutte le possibili antiche lingue, quali il celtico, longobardo e latino che avevano interessato la nostra regione, senza trovare spiegazioni plausibili, mi sono imbattuto in un termine del medio alto tedesco (m.a.t., “Mittelhochdeutsch”) “ge-riute” che nella zona tedesca della Val di Non aveva dato origine al cognome Greiter e a un maso detto “in Greut”. Ebbene la traduzione di “ge-riute” è “terra dissodata” ossia ronco o novale. Quindi se così fosse, potremmo far risalire il toponimo ai tempi delle grandi operazioni di disboscamento e messa a coltura di nuove terre ad opera dei “roncadori” provenienti dall’area tedesca. Queste persone nel XIII secolo arrivarono numerose nell’odierna valle dei Mocheni e in val di Cembra e non è escluso che qualche piccolo gruppo, tramite i dinasti locali, si fosse spostato in Val di Non. A nord delle Greute e delle Bertuse troviamo la località Ciamperdon, pianeggiante e coltivata nella parte adiacente alla strada, e coperta da bosco nella parte nord-ovest, che più scoscesa degrada verso il Ciambiel e l’Albera. Il toponimo come riscontrato in una delle prime citazioni, deriva dalla forma tondeggiante del luogo che agli albori del Cinquecento apparteneva ai Mendini. Dopo vari cambi di proprietà passando per i Barbacovi, Massenza e altri, ritornò in mano Mendini e all’inizio del Novecento a Pietro Emer, i cui eredi lo possiedono tutt’ora. Attualmente la porzione a nord è occupata dalla casa di Fabrizio Emer. A nord del Ciamperdon si estendeva fino a ricomprendere la località oggi detta Pinza, un’ampia zona in passato prativa, denominata Preda. Il nome potrebbe erroneamente far pensare all’accezione dialettale di pietra, ma in realtà, indicava la presenza di prati (allo stesso modo di Predaia). Interessante nei secoli la restrizione del toponimo, sostituito da altri e sopravvissuto fortuitamente nelle p.f. 633, 634 e 635, cosa che ci ha permesso oggi, di localizzarlo inequivocabilmente.[15] I prati e arativi alla Preda appartenevano fin dai tempi antichi alla mensa vescovile di Trento e, alla pari delle altre proprietà, venivano concessi in locazione perpetuale. Il locatario più lontano nel tempo di cui abbiamo contezza è Giovanni Mendini, possessore del terreno nel 1510, per il quale doveva conferire un moggio di avena e due quarte di segale. Qualche anno dopo sullo stesso terreno, vennero trasferiti anche gli oneri che in precedenza insistevano sul terreno all’Audaral. Dopo Giovanni seguirono il figlio Gregorio, e quindi il genero Leonardo Endrizzi di Don, marito dell’unica figlia Anna. Gregorio Endrizzi, il figlio di Leonardo e Anna Mendini, agli inizi del Seicento si era trasferito stabilmente a Dermulo e i suoi eredi ebbero in locazione i terreni alla Preda fino agli albori dell’Ottocento. Il toponimo originale già nel Seicento non appariva più nei documenti, in quanto sostituito da altri: specificatamente, partendo a nord del Ciamperdon, le p.f. dal 347 al 351 e dal 353 al 360 erano denominate Chegaiole, le p.f. 352 e 353 Romenere, le p.f. 358 e 362 le Curte, e le p.f. 365 e 366 al Grezo. Le Curte e il Grezo furono a loro volta sostituiti dal toponimo Pinza.[16]
5.2. CIAMBIEL Il Ciambiel così come denominato fin da tempi antichi, era circoscritto probabilmente alla zona a valle della strada detta di Ciambiel e il burrone che, prima della costruzione della diga, degradava verso il Noce. In tempi successivi invece, a volte il nome è stato esteso a monte della suddetta strada in sostituzione del toponimo Preda. Nella redazione delle mappe di metà Ottocento il toponimo Ciambiel, arbitrariamente tradotto in Campobello, designava accoppiato con “Rauti”, una delle otto contrade in cui era stato suddiviso il territorio di Dermulo. All’interno del Ciambiel si ritrovano diversi microtoponimi oggi scomparsi che tratteremo più avanti. Le famiglie che possedevano più di un campo nella zona, li distinguevano ad esempio con il diminutivo Ciambielot, oppure con Ciambiel di Sopra o di Sotto, quest’ultimo caratterizzato comunque, da una differente giacitura, delimitata a monte da una strada consortile. Esaminando vari documenti è stato possibile accertare come, intorno al 1680, una considerevole superficie (vicina ai 2/3) del Ciambiel, appartenesse a Silvestro Inama II (dalla p.f. 370 alla 377, la p.f. 385 e 386). Infatti negli anni successivi si è delineato un frazionamento del territorio, dapprima fra i due figli Giacomo II e Vittore III, e poi fra i nipoti. Silvestro II già alla metà del Seicento, possedeva diversi arativi-vignati al Ciambiel, ma sicuramente ne acquisì altri dai Massenza (discendenti di Simone I) e dai Pret che gli permisero di arrivare all’importante accorpamento sopraccennato. I boschi posti a nord ovest dei campi coltivati, dove oggi sorge la costruzione proprietà della società Edison e le relative pertinenze a servizio della diga di Santa Giustina, erano pure proprietà della famiglia Inama (p.f. dal n. 392 al 395). Sul finire del Settecento, Giovanni Francesco Inama era l’unico proprietario del bosco che fu poi frazionato in diverse porzioni toccate ai numerosi figli. Gli altri boschi con una considerevole superficie, che si incontravano spostandosi verso est, erano invece proprietà dei Betta (p.f. 405) e dei Panizza (“la Busa” p.f. 390). Nella zona coltivata salta all’occhio la notevole superficie della p.f. 369, (attualmente divisa nelle p.f. 368 e 369) che per secoli fu proprietà della chiesa di Dermulo. Il primo embrione della proprietà ecclesiastica è da ricercare nella donazione avvenuta nel 1617 da parte delle sorelle Maddalena e Margherita Inama, di un terreno appartenuto al padre Ercole.[17] A questa poi, con successive acquisizioni, si sono aggiunte altre porzioni a monte che appartennero fino alla fine del Cinquecento ai Mendini e poi agli Endrizzi. Allo stesso ramo Inama di Gaspare I, apparteneva anche l’appezzamento contraddistinto dalle p.f. 338 e 339. A valle della p.f. 369 esistevano due strette particelle (p.f. 370 e 373) denominate Leonarda, pure proprietà della chiesa.[18] Inizialmente le due p.f. formavano un corpo unico che fu lasciato alla chiesa dei SS. Filippo e Giacomo per volere di Silvestro Inama III. Successivamente, quando le due p.f. divennero proprietà dei locatori, considerata l’eccessiva strettezza che rendeva difficoltosa la lavorazione, si procedette ad un accorpamento e alla divisione in senso trasversale. Fu quindi assegnato il numero di p.f. 370 alla parte sud e il n. 373 alla parte nord. La vicina p.f. 374 per la sua notevole lunghezza era denominata anche alle Stregle Longhe ed è oggi proprietà dei discendenti di Pietro Emer, dopo essere appartenuta agli Inama e transitata per i Bertolini di Cles.[19] A valle si estende la p.f. 375 che la famiglia Mendini chiamava Ciambiel di Sopra e che dopo la metà dell’Ottocento ha conglobato la vicina p.f. 388, determinando di conseguenza la scomparsa di quest’ultima. La p.f. 388 assieme alla vicina p.f. 389 formava un’entità unica denominata alle Spinate che alla metà del Settecento fu acquisita dalla famiglia Bombarda di Coredo e poi concessa a livello perpetuale a Giacomo fu Ottavio Inama. Il passaggio della nuova strada erariale che portava al ponte di Santa Giustina, ha lasciato a valle una piccola parte della zona del Ciambiel. L’unica particella che frazionata è rimasta sia sotto che sopra la strada è la n. 377, che già alla metà Ottocento presentava un’insolita morfologia. Assieme alle vicine p.f. 385 e 386 formava un unico campo di cui il primo proprietario certo fu Silvestro Inama III. Dai pochi documenti cinquecenteschi inerenti il Ciambiel, si evince però, grazie alla comparsa fra i confini del fiume Noce, del bosco e del dirupo, che gli appezzamenti sopraccitati appartenevano alle famiglie Pret e Massenza. Proseguendo in direzione nord oltre al Ciambiel, rimanendo a valle della strada delle Plazze, si incontrano alcuni boschi che oggi degradano nel lago di Santa Giustina, ma una volta con la parte terminale strapiombante raggiungevano il Noce. Tali boschi contrassegnati con le p.f. dal numero 390 fino al 410 (nei pressi del Blaum), sono denominati alla Teza [20] Il nome però non è univoco, essendo la p.f. 390 detta anche Busa, le p.f. dal 406 al 409 furono dette anche Bertus, dalla località posta più a monte. Queste ultime particelle di bosco appartenevano fin dal Seicento alla famiglia Mendini. Proseguendo a nord, troviamo le due p.f. 410 e 411 proprietà Inama e poi Panizza, denominate nel Catasto Teresiano, Bertus. A nord delle predette due p.f. troviamo tutta quella parte di bosco e pascolo contrassegnato dalle p.f. dal 412 al 416 e denominato Pont Aut.
5.3. DOIVIE, BERTUS E VISENZI A monte del Ciambiel, racchiusa fra le due strade per Sanzeno e delle Plazze, e a nord dal rivo che scende dalla Mora, si estende un’ampia zona in lieve pendenza contraddistinta dai toponimi Doivie, Bertus e Visenzi. Del primo terreno, incuneato fra le due strade e, per tale motivo detto Doivie, abbiamo notizie molto antiche, in quanto pertinente del maso che Castel Valer possedeva a Dermulo. Fin dal Trecento, quando era denominato Val Merlai, si susseguirono nella sua conduzione i vari membri della famiglia Mendini che vi erano infeudati. Alla metà del Seicento l’utile dominio passò dai Mendini alla famiglia Panizza di Taio ed infine, assieme alla proprietà, passò ai Brida di Dermulo. Più a nord troviamo la grande particella n. 606 del Bertus che alla metà del Cinquecento apparteneva alla famiglia Massenza e poco dopo era transitata ai Mendini. Un piccolo appezzamento detto Bertusel, riconoscibile nell’odierna p.f. 605, rimase in mano Massenza fino agli anni Ottanta del Seicento, quando, dopo la morte senza discendenza di Vittore, passò nelle disponibilità della mensa vescovile. (In realtà la porzione più a sud, sembra che fosse già pervenuta alla chiesa di Dermulo prima del 1618). Il terreno quindi fu poi posseduto da Giacomo Inama II e quindi concesso in locazione perpetuale dai suoi discendenti a vari locatari. A nord si estende un’altra particella denominata Bertus, contraddistinta dalle p.f. 603 e 604. Alla metà del Cinquecento apparteneva a Gregorio Mendini e in seguito fu alienata a Francesco Inama di Dermulo abitante a Coredo. Per mezzo della figlia Margherita, il terreno entrò nelle disponibilità della famiglia Rizzardi, dalla quale fu concesso in locazione perpetuale per svariati anni. Il terreno era gravato dalla contribuzione di una fràchela di olio verso la chiesa di Dermulo. Nel Novecento le particelle sono state ridistribuite e frazionate così come ancora oggi appaiono, ovvero la superficie della p.f. 604 occupa la metà a sud della p.f. originaria, mentre la p.f. 603, frazionata in 603/1 e 603/2 occupa la metà a nord. Oltre il Bertus si trovavano i terreni prativi denominati Visenzi. Tali prati erano appartenuti, almeno in parte, alla famiglia Zattoni originaria di Tres che risiedeva a Dermulo fin dai primi anni del Quattrocento e che dal nome ricorrente Vincenzo, fu poi appellata “Vicenzi”. Intorno alla metà del Ciquecento i “Vicenzi” si estinsero, per cui si ritrovano possessori della zona i Cordini, gli Inama e i Mendini. Specificatamente nel Cinquecento è possibile ricondurre la proprietà del grande prato formato dalle future p.f. 595 e 596 alla famiglia Cordini. Già poco dopo la metà del Cinquecento appariva suddiviso in quattro porzioni che casualmente rispecchiano molto l’attuale situazione: di quella a nord-ovest (grosso modo l’attuale p.f. 596/1) era proprietario il notaio Filippo Cordini, di quella a nord-est, (p.f. 596/2) suo cugino Baldassarre, di quella a sud-ovest Martino Cordini (p.f. 595/1) e infine di quella a sud-est (p.f. 595/2) non conosciamo il proprietario ma, molto probabilmente, apparteneva ad Anna, cugina di Martino. Visti i nominativi appena citati e il loro grado di parentela, credo si possa affermare che in precedenza il prato fosse appartenuto ai rispettivi genitori e quindi ancora prima ai nonni. Questo ci permette di fare un’ulteriore ipotesi, e cioè che la parte nord (p.f. 596) fosse stata acquisita dagli eredi Vicenzi da Antonio II Cordini, mentre la parte sud (p.f. 595) da Delaito Cordini. Gradualmente questi prati furono acquisiti da Nicolò Berti e nipoti di Tassullo, soprannominati Cristini, dai quali in tempi successivi furono alienati ad altre famiglie. Il vuoto documentale di quasi un secolo, non ci permette di avere certezze sulli acquirenti, ma basandoci su un documento del 1678, riferito alla futura p.f. 596/2, e nel quale appariva proprietario Francesco Rizzardi di Coredo, possiamo intuire che tale prato fosse giunto nelle disponibilità di Francesco Inama, nonno materno del Rizzardi. Nel 1678 i fratelli Giacomo e Antonio Mendini acquisirono il prato dal Rizzardi e lo annessero a quello che già era in loro possesso, ovvero alla p.f. 596/1. La p.f. 595 appartenuta agli eredi di Delaito Cordini nel Seicento apparteneva a Silvestro Inama II, per cui possiamo ipotizzare che l’acquisizione dai Cordini fosse stata opera del bisnonno di Silvestro II, ossia Vittore I. I prati centrali ai Visenzi contraddistinti dalla p.f. 594 e forse anche dalla p.f. 593, appartenevano nel Cinquecento a Gregorio Mendini. Dopo la sua morte pervennero alla figlia Anna moglie di Leonardo Endrizzi I per cui, dopo essere pervenuti al figlio Gregorio I, successivamente al 1634, furono suddivisi fra Enrico I e Leonardo II. Posso ipotizzare per analogia a quanto accaduto per un terreno a Ciambiel che la futura p.f. 593 fosse perveuta a Enrico e quindi poi ceduta a Pietro Panizza, mentre la p.f. 594, fosse di proprietà di Leonardo II e quindi poi finita a Silvestro Inama. Nel Seicento la parte a nord (p.f. 594) risulta essere proprietà di Silvestro Inama II, mentre la parte sud (p.f. 593) dei Panizza di Taio. Della località ai Visenzi rimane da descrivere la parte più a sud, presso il Bertus, ossia la p.f. 592. Basandoci sui proprietari risultanti nella seconda metà del Seicento, possiamo affermare che il prato nel secolo precedente fosse appartenuto a Ercole Inama, se non addirittura al padre Gaspare II. Margherita e Maddalena, figlie di Ercole, ereditarono infatti il prato che possedettero in comproprietà con i rispettivi mariti, Giacomo Chilovi e Simone Cordini. La porzione indivisa che fu di Maddalena fu acquistata intorno al 1665 dal notaio Udalrico Barbacovi da Simone Cordini IV e da sua cognata, vedova di Ercole Cordini.[21] Nel 1665 il Barbacovi cedeva il prato indiviso a Vittore Massenza, il quale a sua volta lo assegnava come bene dotale alla moglie Lucia Bertoldi. Nel 1687 Lucia alienava la sua parte di prato ad Antonio Mendini VI, il cui figlio Antonio VII infine, lo lascerà in eredità al cugino Giacomo Mendini III. La porzione di Margherita moglie di Giacomo Chilovi, transitò alla nipote Anna Maria e con lei alla famiglia Guelmi di Scanna. Nel 1701 Francesco Antonio Guelmi vendeva la sua parte indivisa di p.f. 592 a Giacomo Mendini III, suo locatario. Dopo il 1737 Giacomo ereditò dal cugino Antonio VII l’altra porzione riunendo finalmente il prato sotto un unico proprietario. Alla metà del Settecento tutti i prati della località Visenzi, fatta eccezione la p.f. 593, erano in mano di Giacomo Mendini III. A valle dei possessi privati fino a non molti anni fa esisteva un bosco e pascolo comunale segnato dalla p.f. 600. Tale particella alla fine degli anni Settanta del Novecento, fu acquisita dai proprietari dei prati confinanti.
5.4. BLAUM A valle della Strada delle Plazze, in corrispondenza del suddetto pascolo comunale, circondata quasi interamente dai beni comunali, troviamo un’area di terreno coltivato dalla forma vagamente ellittica denominata Blaum o Blaun. Del luogo abbiamo la prima menzione nel 1569, allorchè, in mano ai Thun veniva da loro concesso in locazione perpetuale. Cento anni più tardi il Blaum, con la sua superficie di 13 stari, risulta essere proprietà di Silvestro Inama II. Nel 1681 quest’ultimo destinava l’arativo vignato al Blaum al nipote Silvestro IV come parte del suo patrimonio sacerdotale. La morte prematura di don Silvestro fece ritornare il terreno in mano al padre Vittore III che in seguito lo assegnò agli altri tre figli Giovanni Giacomo I, Ottavio e Vittore IV. Il terreno fu diviso in due porzioni, di cui quella a valle fu attribuita a Giovanni Giacomo I e quella a monte rimase indivisa per un periodo fra Ottavio e Vittore IV. Nel 1700 per costituire il patrimonio a Vittore IV, che come il fratello aveva abbracciato la vita religiosa, fu sciolta la comunione della proprietà con Ottavio. Il destino volle però che li a poco anche Vittore passasse a miglior vita, per cui Ottavio divenne il solo proprietario del terreno ereditando la parte del fratello. Nel 1730 Ottavio per pagare un debito, dovette cedere il terreno a Ferdinando Panizza che lo concesse poi in locazione perpetuale a Simone Tamè. Il canone di locazione ammontava a due stari di frumento, due di segale, uno di lente ed un'orna di brascato. In seguito il terreno cambiò proprietari e locatari fino al 1810, quando, l’allora padrone Francesco Chilovi di Taio, mise fine al livello perpetuo acquistando l’utile dominio e i miglioramenti dal locatario Giacomo Endrizzi. Gli eredi di Francesco poi, nel corso dell’Ottocento alienarono il terreno ad altre persone determinando il plurifrazionamento del corpo originale. La porzione a valle che nel 1695 era stata assegnata a Giovanni Giacomo Inama I, dal punto di vista dei cambi di proprietà ebbe una storia più tranquilla. Nell’Ottocento però si insediarono anche qui proprietari estranei ai suoi discendenti. Oggi del terreno arativo al Blaum visibile sulla mappa di metà Ottocento, è rimasto ben poco. L’unica p.f. coltivabile è la n. 429 (ex n. 428), delle altre, una gran parte è servita come cava di materiale per la costruzione della diga di Santa Giustina, mentre il rimanente è stato inghiottito dal bosco. Proseguendo verso nord, si incontrano alcuni boschi privati che appartenevano agli stessi possessori del terreno al Blaum e il grande bosco e pascolo comunale che prima della costruzione della diga, e conseguente invaso del lago, degradavano verso il Noce. Un tratto di bosco, in parte a valle della vecchia strada imperiale, contrassegnato dalle odierne p.f. 417, 418, 419, 358 e 599 a cavallo tra il Cinquecento e Seicento apparteneva a Marino Inama III e in seguito fece parte del maso Panizza e poi Thun. Allo stesso Marino III apparteneva il bosco contiguo segnato con la p.f. 359 che seguì un altro destino; essendo infatti pervenuto al figlio Antonio a mezzo del matrimonio della nipote Lucia, era transitato alla famiglia Mendini. In questa parte di territorio merita un’accenno la rete viaria, poiché ci troviamo all’incrocio di antiche strade di primaria importanza per la viabilità antica che però oggi si fatica a distinguere. In particolare siamo in presenza di ben due strade classificate imperiali, una proveniente da Coredo e l’altra da Dermulo che si intersecavano nella zona Blaum-Gomer-Sabionarre.[22] Nel 1854 fu costruita la nuova strada denominata dei Regiai che, partendo a Dermulo alla Cros delle Doivie e snodandosi ad un’altezza poco inferiore al livello di massimo invaso dell’odierno lago, raggiungeva Revò. Dalla predetta Cros fino al Blaum, la nuova strada calcava la vecchia via imperiale; da li in poi e fino ad oltrepassare la curva dopo il rivo dei Fossadi, invece, correva su un percorso nuovo in mezzo al bosco, poi denominato “la rèta dei Pinigrandi”. Il bosco detto alle Sabionare, (a volte meglio individuato con “sora a Ponte Alto”) diviso in due entità dalla strada e riconoscibile nelle p.f. 433, 434 e 452, apparteneva alla famiglia Panizza di Taio. Fino a circa la metà del Settecento, l’intero bosco era invece suddiviso in direzione est-ovest a formare quattro porzioni, di cui quella più a nord apparteneva alla famiglia Mendini, e a seguire verso sud, alla famiglia Fuganti di Taio, quindi ai Cordini di Taio[23] e per finire all’estremo sud, nei pressi del Gomer, alla famiglia Panizza. Ebbene quest’ultima famiglia poco a poco acquisì tutte le altre porzioni (con “l’aiuto” anche di Giacomo Antonio Inama) risultando sul finire del Settecento proprietaria di tutto il bosco. Alla famiglia Inama invece, apparteneva dopo la metà del Seicento, la grande particella di bosco denominata pure alle Sabionare, numerata con il 457, giacente a monte delle particelle sopra nominate. Sulle vecchie mappe, a valle della p.f. 457, appare una strada classificata come pubblica, alla quale era stato assegnato il numero 919. Tale via che termina nei pressi del ri dei Fossadi, nei documenti non è mai stata identificata come “pubblica”, ma bensì “consortile” e in seguito assorbita dalle particelle confinanti. Probabilmente la consortilità della strada era cessata dal momento in cui tutti i boschi da essa serviti, furono riuniti sotto un unico proprietario. Sulle mappe recenti è infatti scomparsa. Nella forma irregolare della p.f. 457 è possibile individuare ad uno primo sguardo almeno tre porzioni che, prima dell’introduzione del catasto particellare, costituivano entità autonome. Attraverso la comparazione incrociata di alcuni documenti di compravendita di pezzi bosco è stato possibile riconoscere anche altre proprietà preunitarie. Circa al centro della particella, esisteva il bosco di Giacomo Massenza, ereditato, dopo il 1650, da due delle tre figlie, Caterina e Lucia.[24] Le sorelle lo divisero fisicamente in due porzioni di cui quella appartenente a Caterina fu acquisita nel 1671 da Silvestro Inama II, mentre quella di Lucia che aveva preso in marito Giovanni Domenico Valemi di Taio, passò a tale famiglia. Venticinque anni più tardi fu venduta a Giacomo Antonio Inama, nipote di Silvestro. Silvestro Inama II che già possedeva qualche porzione di tale particella fu quindi il grande accentratore di boschi (e non solo), acquisendo proprietà a scapito soprattutto della famiglia Massenza. Il figlio di Silvestro II, Giacomo II, ma in maggior misura il nipote Giacomo Antonio, completò l’opera del progenitore, acquisendo parti di bosco dai cugini Ottavio e Giovanni Giacomo, nonché da Giacomo Mendini di Sanzeno, tantochè il bosco nel suo insieme divenne di un’estensione davvero importante, rappresentata a metà Ottocento nella p.f. 457. In seguito, per via dei legami parentali che si erano creati con gli Inama, il grande bosco transitò ai Panizza. A nord di tale pineta esistono ancora quattro boschi in mano ai privati, confinanti con i campi della Ciaseta e della Pozzata. Nel Catasto Teresiano risultavano nelle disponibilità di Antonio Cescati e dei Barbacovi, ma i precedenza erano appartenuti a Ottavio Inama (p.f. 454) e allo zio Giacomo II (p.f. 453 e 455), per cui plausibilmente acquistati dal loro progenitore Silvestro Inama II. Tra l’altro, nelle divisioni fra i figli di Vittore Inama III, il bosco toccato ad Ottavio si diceva provenire da Concio Massenza. Un altro bosco contrassegnato dal numero di p.f. 453 e denominato ai Pini, fino agli inizi dell’Ottocento era invece coltivato e piantato pure di gelsi. Verso nord dopo i predetti boschi privati, si estendevano i possessi comunali di pascoli e boschi denominati Plazze che descriverò più sotto.
6.1. GOMER
A nord dei Visenzi troviamo la località Gomer,
oggi individuata dalle p.f. dal 459 al 464 e pure dalle p.f. 467 e 468. In
passato probabilmente comprendeva anche la zona della
Pozzata, e infatti, ciò
traspare da alcuni documenti del Cinquecento, dove si nominano dei prati al
Gomer confinanti a monte con la via pubblica.
6.2. LA POZZATA DI SOTTO Esistevano sul territorio di Dermulo due località con il nome Pozzata che nei documenti si potevano distinguere, solamente valutando i confini citati, oppure dalla specificazione con un vicino toponimo (“ossia a…”). Dalla casualità che il comune di Dermulo fosse in possesso di due prati in ognuna delle zone ne è conseguita la distinzione in Pozzata di Sopra (al Raut) e Pozzata di Sotto (alla Ciaseta), dove l’antonimia era riferita alla strada per Sanzeno. Una grande porzione di terreno che a valle della strada imperiale si estendeva a nord del rivo, fino ai prati comunali, apparteneva a Silvestro Inama II. Parte di quei luoghi era all’epoca ancora coperto dal bosco riconoscibile nella p.f. 464, mentre a nord del bosco si estendeva un grande prato costituito dalle future p.f. 466, 472 e 473. Nelle divisioni fra i figli di Silvestro Inama II, il bosco toccò per intero al figlio Giacomo II, come la parte di prato a ridosso dei beni comunali (p.f. 472 e 473), sul cui confine erano presenti pini, querce e olmi, mentre il restante prato (p.f. 466) pervenne a Vittore III. I prati di Giacomo II, furono poi locati perpetuamente dal nipote Giacomo Antonio Inama e quindi sul finire del Settecento acquisiti dagli affittuari, mentre quello di Vittore, inizialmente toccato al figlio Vittore IV chierico, a seguito della sua morte prematura, pervenne ai fratelli Giovanni Giacomo I e Ottavio.[25] Per motivi sconosciuti la parte a nord toccata a Giovanni Giacomo, passò (assieme ad un altro terreno a Rizzai segnato con le p.f. n. 553 e 554) nelle disponibilità dei Padri Gesuiti di Trento, i quali lo concessero in locazione perpetuale, prima a Giovanni Giacomo II Inama e poi a Giacomo fu Ottavio Inama. Il canone annuale di locazione consisteva in tre stari di frumento, tre stari di segale, e uno staro di avena, da portare a Dermulo o a Segno. La proprietà è sempre descritta come prato e piccolo bosco di roveri attiguo. Ottavio invece, alienò la sua porzione di prato a Domenico Massenza e il boschetto di roveri a Francesco Cristoforetti di Taio.[26] Nel 1789 la proprietà di quest’ultimo fu accorpata dai Panizza al loro bosco che tutto intero possiamo riconoscere nella p.f. 464. Giacomo Antonio Inama intorno al 1766 aveva aumentato le sue proprietà con l’acquisizione delle future p.f. 469, 470 e 471 dagli eredi di Giacomo Mendini II. In quegli anni il luogo era ancora classificato come bosco e la sua conversione a prato fu iniziata da Giacomo fu Ottavio Inama, livellario di Giacomo Antonio, intorno al 1780. Nel Catasto Teresiano fu classificato come greggio, ossia terreno non lavorato, ma nel 1835 all’epoca delle divisioni fra i fratelli Giovanni e Giacomo, discendenti di Giacomo, era già individuato come prato e, infatti, tale lo troviamo rappresentato nella mappa del 1859. Immediatamente a nord dei terreni privati appena descritti, si trovava il prato di pertinenza comunale diviso diagonalmente in due porzioni dalla Strada delle Ciasete. (In realtà la parte prativa si trovava a sud della strada, mentre a nord, ancora alla metà Ottocento, cresceva il bosco).[27] E’ difficile dire se tale terreno fosse sempre stato nelle disponibilità collettive, oppure, se vi fosse entrato a far parte in un secondo momento. Io propendo per quest’ultima ipotesi, risultando tutti i beni limitrofi in mano a privati, per cui si può ipotizzare un lascito oppure un incameramento conseguente a debiti non saldati dall’antico proprietario. Ma non si può escludere, comunque, che si trattasse invece dell’ultimo bene rimasto in mano pubblica, dopo che tutti gli altri terreni circostanti erano divenuti proprietà privata. Nulla ci vieta di pensare che quanto successo nel Settecento per la zona del Raut e delle Voltoline, che descriverò più avanti, non possa essere accaduto in tempi anteriori e non documentati, nella zona della Ciaseta. Nel 1778 la comunità si era trovata in importanti difficoltà economiche e per farvi fronte si vide costretta ad alienare alcuni beni. Fra questi c’erano anche i due prati detti alla Pozzata, uno “di Sopra” e l’altro “di Sotto”. L’acquirente fu individuato in Giovanni Mendini che acquisì entrambi i prati per la somma totale di 500 Ragnesi. Trecento di questi, dovevano essere versati ai fratelli Chilovi di Taio che li avevano prestati alla comunità anni addietro ed erano assicurati sui predetti prati, mentre i rimanenti duecento, andarono a rimpinguare le casse del comune. In realtà il denaro fu gestito da don Cristoforo Franceschini, arciprete di Taio che lo utilizzò per il sostentamento del neo eletto primissario di Dermulo. Nel contratto per la cessione dei prati però, era stata prevista la possibilità di riscatto da parte del comune, da esercitare però entro i sei anni, ma non prima dei quattro. E infatti così avvenne: nel 1784 il comune riacquisì i terreni versando al Mendini la somma di 200 Ragnesi.
6.3. LA CIASETA E CIANVECEL A nord della Pozzata, racchiusa dal ri dei Fossadi e dalla strada per Sanzeno, si estende la località Ciaseta (spesso citata come “a Ciavauden ossia Casetta”) che molto probabilmente fin dal Quattrocento apparteneva in toto alla famiglia Cordini. Quest’ultima a sua volta si era plausibilmente inserita sui possessi dei “Delaiti”. A nord e a sud della zona, la proprietà Cordini alla metà del Seicento aveva già lasciato il posto a Silvestro Inama II. Tali campi si possono riconoscere nelle p.f. dal 482 al 487 poi divisi fra i due figli Giacomo II a cui toccò la Tonda (p.f. 486 e 487) e Vittore III (p.f. dal n. 482 al 485). Allo stesso Silvestro Inama II appartenevano i campi a nord nei pressi del rivo contrassegnati con i numeri dal 531 al 538. All’interno dei due estremi appena descritti, troviamo il terreno originale formato dalle p.f. dal n. 488 al n. 498, e dal n. 539 al 543, appartenuto al capostipite Nicolò Cordini, e poi frazionato fra i discendenti dei suoi due figli Giovanni e Delaito. Dell’antica proprietà di questa famiglia ci è rimasta una reminescenza toponomastica nella p.f. 493, che oltre a Ciaseta era conosciuta anche come Ciamp Cordin. Tale terreno assieme al prato posto a valle (odierna p.f. 494) almeno dalla metà del Cinquecento era transitato alla canonica di Sanzeno, dalla quale veniva concesso in locazione. Uno dei primi locatari di cui si ha notizia è Fabiano Massenza intorno al 1575, in seguito fu sostituito da Baldassarre Cordini. Nel 1671 fu concesso a livello perpetuo ai fratelli Giacomo e Vittore Inama, figli del fu Silvestro di Dermulo. L’investitura si protrasse fino alla metà dell’Ottocento. Le odierne p.f. 495, 496 e 497, intorno alla metà del Seicento, passarono dai Cordini ai loro parenti Panizza di Taio e, con l’aggiunta della p.f. 494, entrarono a far parte del così detto Beneficio Panizza, fondato da don Pietro nel 1718.[28] Sul territorio di Dermulo, oltre ai terreni alla Ciaseta, ricadeva sotto il Beneficio anche il campo a Ciavauden contrassegnato dalla p.f. 520. Le p.f. n. 488, 489 e 490 già appartenute a Delaito Cordini, sul finire del Cinquecento transitarono ai Betta di Malgolo. Nel 1773 abbiamo una descrizione del terreno che rispecchia perfettamente, per quanto riguarda la coltura, la rappresentazione in mappa di metà Ottocento, ovvero due corpi arativi con al centro il prato. Nel settembre del 1792 abbiamo notizia che, oltre al fieno del prato, nel campo erano presenti, “formentazzo, fagioli e sorgo in parte ledrati e in parte da ledrarsi”. Un discorso a parte merita il luogo denominato Campovecchio (Cianvecel) contraddistinto dalle p.f. dal n. 539 al n. 543 e confinante con lo stradone. Probabilmente il nome Cianvecel aveva sostituito Ciaseta per esser meglio localizzato tra i terreni limitrofi appartenente allo stesso proprietario. Nel 1561 risultava appartenere a Vigilio Cordini per cui potremmo ipotizzare che in precedenza fosse appartenuto al padre Cristoforo e forse anche al nonno Giovanni. Questa ipotesi è confortata anche dall’evidenza di una divisione familiare dimostrata dalla presenza di Bertoldo Cordini (cugino di Vigilio) fra i confinanti del campo. Dopo il 1570 il terreno dovrebbe essere stato acquisito da Silvesto Inama I, per poi passare all’omonimo nipote Silvestro II che troviamo possedere il campo verso la metà del Seicento. Dopo la morte di Silvestro fu diviso in due porzioni fra i figli Vittore III e Giacomo II. Al primo fu assegnata la metà del campo a monte nei pressi della via pubblica (future p.f. 540, 541 e 542), al secondo la parte a valle (future p.f. 539 e 543). Alla morte di Vittore III il terreno fu diviso equamente fra i tre figli: Giovanni Giacomo I (parte nord), Vittore IV (parte centrale) e Ottavio (parte sud). Il prete Vittore IV morì nel 1705 per cui i due fratelli Giovanni Giacomo ed Ottavio si divisero la parte di Vittore arrivando di fatto alla costituzione delle due attuali p.f. 540/1 e 542. Intorno al 1740 Giovanni Giacomo II aveva trasferito sulla sua porzione (p.f. 540/1) l’onere gafforiale che prima era radicato sul terreno a Toresco nella zona di Ciamblonc. Per tale motivo troviamo nel Catasto Teresiano che il terreno a Cianvecel, proprietà del nipote Giovanni Francesco Inama, era soggetto a detto onere. Giovanni Francesco qualche anno prima, aveva ereditato da Giacomo Antonio Inama la restante parte del terreno a Cianvecel, (posta a valle) che ai tempi della prima divisione era toccata a Giacomo Inama II. Il terreno contrassegnato dalle p.f. 541 e 542 che corrispondeva a circa un quarto dell’appezzamento originale di Cianvecel, da Ottavio passò al figlio Giacomo che infatti troviamo proprietario nel Catasto Teresiano.
6.4. LE PLAZZE A valle dei terreni coltivati di Ciavauden, della Ciaseta e del Gomer, trovano posto i boschi ed i pascoli comunali delle Plazze. Qui l’attuale paesaggio è molto diverso dal passato: dapprima la costruzione della diga con i relativi lavori di approvvigionamento di materiali, e il conseguente invaso del lago, e successivamente lo sfruttamento della zona come cava di inerti, hanno completamente stravolto l’area. Il luogo doveva essere molto suggestivo: un dosso ricoperto di pini, chiamato nei documenti Dosso di Ciavauden o Doss dele Plazze e anche Poinela si ergeva al centro delle Plazze; alla base del dosso, altro bosco frammisto a pascolo degradava verso il Noce, solcato da vari sentieri e strade. Per attraversare il Noce era stato costruito nei pressi del Doss dela Colombara un ponte, detto Pont Aut, ritenuto di origine romana, ma in realtà di fattura medioevale, il quale permetteva di raggiungere il territorio di Tassullo.[29] Un altro ponte medioevale detto della Mula o Regaiolo era stato gettato per attraversare il Rio di San Romedio e portarsi nel territorio di Sanzeno.[30] Nei secoli scorsi tutta la zona delle Plazze, Pont Aut, Regiai era interessata al pascolo delle capre. Esisteva anche una convenzione con il comune di Sanzeno che permetteva ai dermulani di pascolare il loro bestiame nella vicina località Zurlaia. A tal proposito, come già accennato per i terreni di Ciavauden, non posso che rimarcare la stranezza di queste proprietà di Sanzeno su un territorio che, per logica doveva appartenere a Dermulo. La presenza del solco del rivo di San Romedio dovrebbe essere stato un confine naturale ovvio fra le due comunità, per cui, a mio avviso, ci deve essere stata un’antica cessione fatta dai dermulani alla comunità di Sanzeno, chissà con quale contropartita. Dalle Plazze, percorrendo la stradina oggi semi inghiottita dal bosco che costeggia il rio San Romedio, attraversando la Zurlaia è possibile raggiungere i soprastanti campi di Ciavauden e guadagnare la strada per Sanzeno. Oggi come detto, la via è ridotta a sentiero ma in passato aveva una certa importanza in quanto come traspare da un documento del 1787 era la “strada che portava a Ponte Alto”.
6.5. CIAVAUDEN Nella zona di Ciavauden si trovano gli unici terreni pianeggianti di una certa importanza del comune catastale di Dermulo. Il toponimo, che sembra derivi dal grande fosso scavato dal rio San Romedio o dal termine "vaudo" indicante il bosco, si estende sui comuni catastali di Dermulo, Sanzeno e Coredo. Oggi designa la piana misurante poco più di nove ettari (circa la metà dei quali sul comune catastale di Sanzeno), compresa fra il Ri dei Fossadi, la strada di Sanzeno e il bosco delle Plazze. In antico, invece, si spingeva più a sud verso Dermulo, tanto da interessare la Ciaseta e Rizzai, fino alla Mora compresa. In questo caso il toponimo appariva nella forma “a Ciavauden ossia….” seguito dal nome specifico. A metà Ottocento, con l’introduzione delle prime mappe catastali, Ciavauden costituiva una delle otto contrade in cui era stato suddiviso il territorio. A Ciavauden i terreni erano principalmente arativi, senza la presenza significativa di altre piante. Nel Settecento però, la comparsa del toponimo "ala Pomara", ci illumina sulla presenza di una pianta di melo. Tale pianta probabilmente era anche di grandi dimensioni, tanto da contraddistinguere il campo sul territorio di Sanzeno, dove cresceva, e pure i terreni attigui. La zona di Ciavauden è divisa dall’omonima strada in due porzioni che già in antico erano denominate Ciavauden di Sopra e Ciavauden di Sotto. In entrambe le macrozone si trovano campi sul comune di Sanzeno e campi su quello di Dermulo. Esistevano poi due terreni particolari, uno “di Sotto” e uno “di Sopra” che si trovavano a cavallo fra i due comuni. Tale situazione si espresse con il toponimo “al Tèrmen” (per l’esistenza di una pietra confinaria fra le due comunità), o più genericamente, con “a Ciavauden pertinenze di Dermulo e di Sanzeno”. I coltivi sul territorio di Sanzeno furono sempre prerogativa degli abitanti di Dermulo e dal Catasto Teresiano si rileva questa situazione già consolidata da anni. Nell’Ottocento però, i dermulani persero via via importanza come proprietari non solo dei campi su Sanzeno ma anche di quelli su Dermulo, tantochè oggi vi sono stati quasi estromessi. Tale situazione in verità, non è riferibile alla sola zona di Ciavauden ma a tutto il territorio dermulano. A ben guardare si è ritornati alla situazione pre-quattrocentesca, dove il territorio era principalmente in mano a forestieri. Sui terreni a Ciavauden insistenti su Sanzeno, i diritti di decima erano pagati diversamente rispetto a quelli di Dermulo.[31] In particolare rileviamo che un quarto della decima, fino al 1703, era dovuta alla famiglia Gentili di Sanzeno e ancora prima a Castel Thun. Nel 1703 i Gentili vendettero tale diritto alla famiglia Mendini di Dermulo. Antonio fu Antonio Mendini nel suo testamento del 1718 dispose che i proventi della decima fossero impiegati per distribuire ogni anno “in perpetuo nel giorno di martedì delle rogazioni”…. “davanti alla porta della casa del testatore, Troni 6 di pane di formento in tante tronde a quelli che parteciperanno (alle rogazioni)…”. Sul territorio di Dermulo i terreni di Ciavauden di Sopra, partendo a nord, dall’attuale p.f. 520 alla 523, nel Seicento appartenevano a Silvestro Inama II. La p.f. 520 poi entrò a far parte del beneficio fondato da don Pietro Panizza di Taio nel 1718. Le p.f. dal n. 524 al 527 nel Settecento appartenevano a Giacomo Mendini II. I terreni dal n. 528 al 530 confinanti a sud con il ri dei Fossadi erano denominati la Sgolma. Sembra però che questo toponimo abbracciasse un’area più estesa, perché nel 1814 fu nominata alla Sgolma la futura p.f. 522. La parte a sud dell’odierna p.f. 528 e le p.f. 529 e 530, fino alla metà del Seicento appartenevano a Giacomo Massenza. Ci sono evidenze che un’ampia zona di “Ciavauden sopra la strada”, grosso modo dalla p.f. 525 alla 530 per una superficie intorno all’ettaro, alla metà del Cinquecento fosse stata in mano a Francesco Massenza II, nonno di Giacomo. Dopo il 1671 Silvestro Inama II acquisì i campi delle sorelle Massenza eredi del padre Giacomo. La p.f. 530 confinante in buona parte con il ri dei Fossadi era utilizzata in passato come strada consortile. Nella prima metà del Settecento la famiglia Mendini, in particolare con Giacomo III, aveva proceduto a importanti e sistematiche acquisizioni. Giacomo comperando terreni limitrofi ai propri, sia da parenti sia da altre famiglie in difficoltà o prossime all’estinzione, diventerà il maggior possidente della zona. Il figlio Romedio Maria Mendini sul finire del Settecento arrivò a possedere ben otto campi a Ciavauden, di cui tre alla Sgolma (p.f. 528, 525 e 522) uno ai Sassi (parte della p.f. 510), uno ai Fossadi (parte delle p.f. 503, 504, e 505), un altro a Ciavauden sotto la strada (p.f. 518) e due sul comune di Sanzeno. A Ciavauden di Sotto, tutti i terreni posti sul comune catastale di Dermulo erano detti anche ai Sassi per la loro natura ghiaiosa, e quello posto più a sud è curiosamente denominato Paradis. Anche qui, partendo da nord siamo in grado di riconoscere alcuni degli antichi terreni ed assegnarli ai loro proprietari nel periodo fra Cinquecento e Seicento. Quindi il grande appezzamento formato dalle future p.f. dal n. 516 al n. 518 apparteneva ad Antonio Mendini II, e nel Seicento fu equamente suddiviso fra i suoi figli Antonio, Giovanni e Giacomo. Più a sud le future p.f. 513, 514 e 515 appartenevano invece a un ramo alla famiglia Massenza di cui Vittore fu ultimo discendente. Non sappiamo poi se furono alienati dallo stesso Vittore o dai suoi eredi, ma buona parte entrarono nelle disponibilità di Giovanni Battista Inama I. A seguire, le attuali p.f. dal n. 510 al 512 formavano durante il Cinquecento un unico terreno appartenente alla famiglia Inama. In particolare la p.f. 512, apparteneva a Marino fu Gaspare Inama (+1538) e poi alla metà del Seicento transitata per via di un matrimonio ai Guelmi di Scanna. Le p.f. 510 e 511 appartennero alla linea di Rigolo, quindi a Silvestro Inama II, per poi transitare agli inizi del Settecento nel patrimonio di don Vittore Inama. Successivamente, il terreno fu diviso in due porzioni e gli Inama persero la proprietà a favore di altre famiglie. In realtà, oltre alle due zone a Ciavauden sopra esposte, ne esiste una terza localizzata più a sud, posta fra la strada di Ciavauden e il rivo da cui ha preso il nome Fossadi. I terreni interessati sono contraddistinti con le p.f. dal n. 499 al 507. Il campo incuneato nel bosco delle Plazze, riconoscibile nelle odierne p.f. dal 499 al 502, apparteneva nel Seicento alla famiglia Massenza, e nel secolo scorso era denominato anche Plan dei Cucudi. Oggi tale terreno che in seguito si era rimboschito è scomparso, in quanto fu acquisito negli anni Settanta del Novecento dalla ditta Lorengo di Cles e sfruttato come cava di inerti. Il grande terreno misurante circa 7.000 mq contraddistinto dalle p.f. dal n. 503 al n. 505, sul finire del Seicento apparteneva a Nicolò Mendini. Successivamente fu suddiviso in tre porzioni fra i suoi eredi mantenendo questa configurazione fino alla metà dell’Ottocento, quando fu riunificato da Giuseppe Inama di Sanzeno. Nel 1699 su questo terreno fu trasferito un onere per la celebrazione di una messa in suffragio dell’eremita Federico Gaiardelli, che prima gravava un terreno a Tres nel luogo all’Ors. Il terreno segnato dalle p.f. 506 e 507 è l’ultimo denominato ai Fossadi o Fossà. Esso nel 1780 apparteneva a Giovanni Michele Inama e il suo confine nord è interessante perché conferma la presenza di una strada consortile che proseguendo a nord del ri dei Fossadi, raggiungeva lo stradone. Oggi di tale strada (probabilmente costituita dalla p.f. 530) non c’è traccia. Era denominata Ciavauden (forse mutuando il toponimo dalla zona sottostante) anche la striscia di terreno e bosco sul comune catastale di Coredo, che si estendeva a monte della strada statale per Sanzeno a nord del ri dele Force. I terreni coltivati, qui facevano capo alle p.f. dal n. 1512 al 1514 (prati) e alle p.f. 1515, 1518, 1519 e 1522 (arativi).
7. DALLE FONTANELE ALLE VOLTOLINE
A sud del ri dele
Force, confinata ad est dalla località
Parisole e da ovest dallo stradone per Sanzeno, si incotra la località
Fontanele. Sul tenere di Coredo tale località si estendeva dalla p.f. n. 1499
alla 1506 che nel Seicento appartenevano in parte alla canonica di Sanzeno. I
terreni, principalmente destinati a prato, appartennero poi ai discendenti di
Silvestro Inama II.
7.1.RIZZAI Proseguendo verso sud, a monte della strada statale si estendeva fino alla Mora, la zona arativa, prativa, e in piccola parte boschiva, denominata in origine Lizzai e poi Rizzai. La suddetta strada, nel tratto di Rizzai, aveva abbandonato il vecchio tracciato della via imperiale che scorreva più a valle, intaccando in modo importante la p.f. 551, tanto chè nel 1858 Giovanni Inama, al quale, nelle divisioni con il fratello era toccata la parte sotto, decise di cedergli quel poco terreno che era rimasto libero dai lavori stradali. Nel Cinquecento il luogo, ad esclusione della porzione a sud-est che era proprietà Inama, apparteneva alla famiglia Cordini. Alla metà del Seicento, quello che si poteva considerare un unico terreno (p.f. da 551-554 e da 560-564) appartenuto a Baldassarre Cordini, fu suddiviso fra gli eredi e, rispetto a quanto appare attualmente, si erano formati più entità di campo. Ovvero, circa la metà a sud delle p.f. 551-553 e circa la metà a nord delle p.f. 563-561 costituivano un appezzamento autonomo della misura di 4 stari che, nel 1671, passò per un motivo non noto, dall’acquirente Silvestro Inama II, alla canonica di Sanzeno.[32] In quel periodo infatti, Silvestro Inama II aveva acquisito tutti i terreni di Rizzai in passato appartenuti a Baldassarre Cordini, che nel frattempo erano pervenuti in eredità a figli e nipoti. La futura p.f. 553 poco prima del 1743, transitò da Giovanni Giacomo II, pronipote di Silvestro II, ai padri Gesuiti di Trento. Gli stessi avevano contemporaneamente acquisito un altro terreno di Giovanni Giacomo, sito a valle della via imperiale, denominato alla Pozzata (oggi alla Busa) e riconoscibile nella parte nord della p.f. 466. La parte nord dell’adiacente futura p.f. 551-552, nello stesso periodo apparteneva ad Ottavio Inama, zio di Giovanni Giacomo II. Nel 1781 Giacomo figlio del fu Ottavio aveva ampliato la superficie del campo, ricevendo in locazione circa 400 metri quadrati di terreno grezzivo dalla comunità di Dermulo. Tale terreno fu poi definitivamente acquisito versando la prevista quota di affrancazione. Nel 1755 lo stesso Giacomo acquisì dal cugino Giovanni Giacomo II, l’utile dominio del terreno dei Gesuiti. Sul territorio di Coredo a monte di Rizzai, si estendeva un bosco che apparteneva fin dal Seicento alla famiglia Panizza di Taio. Proseguendo verso sud, le p.f. dal 555 al 557 nel Seicento appartenevano ai discendenti di Valentino Inama, specificatamente a Marino che poi lasciando Dermulo per Verona, le aveva alienate al fratello Giovanni Battista. Non è escluso che i due terreni confinanti, ovvero le p.f. dal 569-562 e le p.f. 563 e 564, siano appartenuti a Bartolomeo Inama e ad Antonio Inama, fratelli del citato Valentino. In ogni caso poi entrambi i campi furono acquisiti da Silvestro Inama II. Sul lato sud di tali terreni scorreva la Strada delle Parisole. Tale via era di primaria importanza per il collegamento fra Coredo e i ponti sul Noce (dapprima fra il territorio di Sanzeno e quello di Cles e poi a Pont Aut fra Dermulo e Tassullo), tanto da essere classificata già nel Settecento, strada imperiale.[33] Dopo la costruzione del ponte di Santa Giustina, la strada fu progressivamente abbandonata e oggi in alcuni punti il tracciato non è più del tutto riconoscibile. Infatti, il tratto fra la strada per Sanzeno e quella delle Plazze è stato relegato a stradina privata di servizio ai terreni del Gomer. Invece verso Coredo, la vecchia via è stata interrotta dalla strada aperta negli anni Settanta del Novecento per raggiungere la cava del Cementificio Tassullo.
7.2. MORA Compresa fra la suddetta Strada delle Parisole e il rivo (della Mora), troviamo la località Mòra segnata dalle p.f. dal 565 al 568. Il luogo era detto anche Pra del Conz, ossia prato di Concio Massenza, dal suo vecchio proprietario. Nel primo ventennio del Settecento le p.f. 565-566 appartenevano ad Anna Caterina Bombarda di Coredo, la quale le aveva locate perpetuamente a Simone Tamè. In seguito Anna Caterina beneficiò del prato la chiesa del Loreto presso Castel Bragher, assieme ad un altro terreno posto alle Greute. Le altre p.f. della Mora (n. 567 e 568), dopo un possesso intermedio dei Mendini e di Giacomo Inama detto Sep, pervennero a Simone Tamè. Il ri della Mora segnava il confine tra la proprietà privata, posta a nord e quella comunale che si estendeva verso sud a monte della strada imperiale. Nel lontano passato i beni della comunità si estendevano fino alle Late e Brusadiz, abbracciando tutta la zona denominata Pozzata e Raut.
7.3. IL PRA COMUN A sud della Mora, già in antico era stato ricavato il grande prato della comunità, detto alla Pozzata che oltrepassava l’ettaro di superficie. Tale terreno come gli altri comunali, veniva locato ai vicini dietro la corresponsione di un canone di affitto. Nel 1774 la comunità sottoponeva il prato alla Pozzata ad assicurazione per un prestito di 300 Fiorini ricevuto dai fratelli Gaspare e Antonio Chilovi. Quattro anni dopo, necessitando di ulteriori 200 Fiorini, fu deliberata la vendita del prato a Giovanni Mendini che si accollò il primo debito e concesse la seconda somma. Per tale motivo il prato transitò al Mendini, con la clausola però, del possibile riscatto da parte della comunità entro il 1784. Infatti tale evenienza si presentò e la comunità di Dermulo, aiutata anche con la vendita di un altro terreno alle Voltoline, fu in grado di restituire i 200 Fiorini al Mendini. Il prato ritornò quindi nelle disponibilità del comune. In seguito però, per la cronica mancanza di denaro, il comune fu costretto a contrarre altri debiti e ad ipotecare i suoi averi, tra i quali il prato alla Pozzata. Nel 1821 infine, il prato fu venduto all’asta è passò nelle mani del commerciante Giacomo Mendini di Taio, figlio del fu Romedio Maria. Dopo alcuni passaggi nella famiglia Mendini, il grande prato fu ceduto ai primi del Novecento a Romedio Inama, i cui eredi lo posseggono tuttora. Nel Settecento a monte del Pracomun e a nord del Raut, s’incuneava nel bosco comunale di Coredo un grande prato denominato "Pradaz di Cologna", poi solo Pradaz, proprietà di Bartolomeo Mendini. Una parte di questo prato, che sembra fosse in piccola parte anche sul territorio di Dermulo, era di proprietà della mensa vescovile di Trento. Il terreno nominato in antico alle Palusele e poi Palusole, Palisole e quindi Parisole, produceva tre carri di fieno e il suo possessore era obbligato a consegnare annualmente come tassa gafforiale, una quarta di frumento, una quarta di segale e due quarte e una minela di spelta.
7.4. LA POZZATA A sud del Pracomun e a monte dell’odierna strada statale per Sanzeno, fino all’attuale bivio per Coredo si estendevano ampi possessi comunali denominati anticamente alla Pozzata e al Raut (oggi solo Raut). Questi terreni fino a non molti secoli fa coperti da bosco e incolti, furono via via disboscati, dissodati e messi a coltura. Fino alla metà del Settecento all’interno della proprietà comunitaria esisteva solamente una porzione in mano ai privati, riconducibile alle p.f. dal n. 581 al 590 e dal 613 al 618. Possiamo distinguere la zona del Raut in due macrozone, poste rispettivamente a nord e a sud della strada consortile n. 913. Tale strada, scorrendo in direzione est-ovest, congiungeva la via per Coredo e la strada imperiale che portava a Sanzeno. Nella descrizione chiamerò convenzionalmente le due zone, “Raut nord” e “Raut sud”.
7.5. RAUT NORD La parte nord compresa fra il Pracomun e la strada consortile, sul finire del Seicento era divisa a sua volta in tre grandi appezzamenti. Il primo, posto a valle, confinante con la via imperiale e contraddistinto dalle p.f. dal 586 al 589, apparteneva a Silvestro Inama II. Il terreno di Silvestro che all’epoca era detto Greggiotto, faceva parte dei beni che nel 1710 i Dermulani avevano messo a disposizione dell’erigenda primissaria di Dermulo. Si trattava di un contratto particolare, in quanto il terreno rimaneva in realtà al donatore che però si impegnava a corrispondere la rendita stabilita. Tuttavia, se per due anni consecutivi non vi avesse ottemperato, il terreno sarebbe transitato definitivamente al fondo primissariale. Dopo la morte di Silvestro il terreno passò al figlio Giacomo Antonio e da quest’ultimo, dobbiamo arguire, definitivamente alla chiesa, che a metà Settecento lo concedeva a livello perpetuale a Bartolomeo Mendini.[34] La parte centrale con le p.f. dal n. 581 al 585 era per la maggior parte di proprietà della famiglia Panizza di Taio, la quale già dal 1695 l’aveva concessa in locazione perpetuale a Bartolomeo Massenza e a suo genero Giovanni Mendini. In questa porzione esisteva un terreno (corrispondente grossomodo alle p.f. 584 e 585) che apparteneva a Vittorio Emer. Nel 1715 a questa porzione veniva aggregato un bosco che la comunità di Dermulo cedeva a Vittorio, in qualità di compenso per aver indorato un altare nella chiesa di San Vittore a Taio. In seguito dopo vari passaggi, il terreno nella sua interezza pervenne a Bartolomeo Mendini. Allo stesso modo pervennero al Mendini le future p.f. dal n. 581 al 583, per la maggior parte boschive di cui erano proprietari i fratelli Giovanni Giacomo I e Ottavio Inama. L’ultima porzione, posta a monte e contraddistinta dalle p.f. dal 575 al 579 era di proprietà comunale e finì in mano a Bartolomeo Mendini verso la metà del Settecento. Il sarto Bartolomeo, quindi, a seguito delle molteplici acquisizioni perseguite nello spazio di trent’anni come livellario dei Panizza, della chiesa e del comune (dai quali si era poi affrancato) era diventato l’unico proprietario della zona “Raut nord”. La situazione è attestata anche dal Catasto Teresiano del 1780 dove il nostro, risulta possedere tutta la superficie che ammontava a circa due ettari e mezzo e si poteva riconoscere nelle p.f. dal 575 al 590. Nel 1785 Bartolomeo assegnò il terreno a tre dei suoi quattro figli, Bartolomeo, Romedio e Mattia, facendone altrettante porzioni che rispecchiavano l’antica partizione. Nello specifico a Bartolomeo junior fu assegnata la parte a valle, a Romedio la parte centrale e a Mattia quella a monte. In tale frangente risulta che il terreno fosse coltivato a viti e inframezzato da vanezze di arativo.[35] Nella parte a valle risultavano presenti anche gelsi e qualche pianta di noce; nella fascia centrale invece, una piccola parte di superficie era formata da terreno poco fertile con affioramento di roccia, tanto da essere definito lastivo e gregivo. Per tale caratteristica era nato il toponimo "Grezot" all'interno della zona "alla Pozzata", poi sostituito da Raut.
7.6. RAUT SUD I terreni afferenti a questa area insistevano a sud della strada n. 913 ed erano confinati dalla strada comunale per Coredo e dalla via imperiale per Sanzeno. Qui la zona coltivata risultava abbastanza esigua, in quanto riferibile alle sole p.f. n. 616, 614/2, 617 e 618, di cui era proprietaria la famiglia Endrizzi. I rimanenti terreni proprietà del comune erano per lo più coperti da bosco. Il loro destino cambiò nel 1778, allorchè la comunità di Dermulo soffocata dalla cronica povertà, per sopperire ai debiti e far fronte ad altri bisogni, quali il desiderio di avere un curatore d’anime, si vide costretta a concederli a privati con la formula del “livello perpetuo”. In quella occasione furono alienate le future p.f. 619 e 620 a Bartolomeo Mendini; la p.f. 623 a Giovanni Emer, le p.f. 613, 614/2 e 615 a Francesco Mendini, le p.f. 624-626 a Lucia vedova di Giovanni Battista Inama, e le p.f. 627-629 ad Antonio Mendini. Le persone sopraccitate si impegnarono a rendere i terreni coltivabili e a pagare annualmente al comune il canone di locazione. Nel 1798 poi, diventarono proprietari effettivi pagando la prevista somma di affrancamento. Nel 1781 si ebbe un’ulteriore tornata di locazioni che coinvolsero i boschi posti più a sud di quelli sopra citati. Più nello specifico, furono interessati i terreni oggi riconoscibili nelle p.f. dal n. 631 al 635.
E’ interessante notare come questa zona, prima della bonifica, fosse
genericamente chiamata Late o
Brusadiz, come il rimanente grande bosco comunale
e solamente dopo l’intervento di trasformazione in coltivo, assunse il
caratteristico nome di Raut o Noval. Ma non solo. Alcuni terreni vennero
individuati con il toponimo della più adiacente terra coltivata, destando a
volte delle notevoli confusioni. Mi riferisco in particolare ai nomi
Cros,
Doivie e Late. Riguardo al primo, non è stato facile capire che si stesse
parlando delle future p.f. dal 630 al 635.
Solo grazie all’incollocabilità nella zona classica della
Cros e all’assoluta corrispondenza nell’enunciazione dei
confini, con quanto esposto in altri documenti, ho concluso che il toponimo
derivava da un’altra croce, ovvero quella situata a valle di detti terreni, nei
pressi del bivio della Strada per le Plazze. (Tra l’altro, la stessa croce aveva
dato lo spunto per nominare alcuni prativi a valle della stessa, altrimenti
detti “alla Pinza” e piu anticamente Preda). Il toponimo
Doivie, quando appariva “Sopra le Due
Vie”, individuava il terreno localizzato a monte di tale località, ossia le
p.f. 627, 628 e 629 proprietà della
famiglia Tamè. A volte però nei documenti, si
ritrovava tal quale ed evidentemente il “sopra” era dato per scontato. Le
p.f.
633, 634 e 635 nominate in diversi modi, quali alle
Doivie, al
Raut, al Tomelin
(dal soprannome del proprietario Antonio Massenza), sono ancora oggi conosciute
con il toponimo "alla Preda". Proseguendo ancora a sud, arriviamo finalmente alla confluenza fra la strada per Sanzeno e quella per Coredo, dove troviamo la p.f. 640, che fra le varie denominazioni era detta anche “alle Late”. Inizialmente il nome mi aveva tratto in inganno, in quanto oggi la località Late è individuata dalle p.f. dal n. 647 al n. 650, poste a monte della strada statale a nord di Ronc. In realtà, però, da vari documenti consultati è stato possibile capire come il toponimo Late comprendesse in antico anche la zona più a nord, quindi il bosco comunale p.f. 646, la citata 640, le p.f. 641, 642 ma anche gli unici terreni coltivati presenti a monte della vecchia strada per Coredo, ossia le p.f. dal n. 643 al 645 e dal n. 636 al n. 639. Questi ultimi erano pure detti Brusadiz. Riassumendo la situazione del Raut aiutandoci con la cartina, possiamo affermare che tutta la zona colorata, in tempi antichi fosse stata proprietà comunale. Gradatamente poi si iniziò a cedere i terreni. Dei primi evidenziati in giallo non abbiamo documenti di alienazione ma già li troviamo in mano privata agli inizi del Seicento. Tutti gli altri furono dapprima locati perpetuamente e poi definitivamente ceduti ai dermulani a partire dalla metà Settecento. Questa operazione ebbe inizio dalla zona colorata in arancio e proseguì cronologicamente verso sud per culminare nella parte in viola alla fine del Settecento. La cessione della zona rossa si esplicò in due momenti, l’ultimo dei quali nel 1818.
7.7. LATE E RONC A sud delle ex cave delle Late, le p.f. dal 647 al 660 poste fra il bosco comunale e la strada per Sanzeno, si presentavano già coltivate in tempi molto antichi ed erano denominate già all’inizio del Trecento Ronc. Di questa zona, grazie alla fortunata disponibilità di vecchi documenti, conosciamo una ricca sequenza di antichi proprietari e affittuari. Il terreno più a nord, contrassegnato dalle p.f. 649, 650 e 651 oggi denominato alle Late, faceva parte del maso che gli Spaur di Castel Valer possedevano a Dermulo. Mentre quello a monte confinante con il bosco comunale, segnato con le p.f. 647 e 648 dal Cinquecento apparteneva alla vecchia linea Inama di Coredo. Il terreno degli Spaur, locato fin dalla metà del Trecento ai Mendini, rimase nelle disponibilità della famiglia fino agli anni Trenta dell’Ottocento, quando fu venduto a Giovanni Battista Inama. Nel 1735 Giacomo Antonio Mendini, che in quell’anno era affittuario delle p.f. 649-650-651 e proprietario delle p.f. 647 e 648, aveva istituito assieme al fratello Giacomo, un legato perpetuo per la corresponsione di dieci quarte di frumento destinato alla preparazione delle “tronde”. Dette tronde che erano un tipo di pane preparato con la farina di grano e dalla caratteristica forma ovale, dovevano poi essere distribuite a tutte le persone che avessero partecipato alle rogazioni a Dermulo. Tale onere fu vincolato al predetto terreno e seguì tutti i successivi possessori o proprietari. Nel 1855 quando con la legge dello svincolamento della gleba furono aboliti gli antichi istituti gravanti sui terreni, gli allora proprietari delle p.f. 649, 650 e 651, Giovanni Battista Inama e della p.f. 647 e 648, Giuseppe Mendini fecero espressa richiesta di esonero. L’istanza fu rigettata perché - si disse - essendo l’obbligo di origine testamentaria non era ricompreso fra i casi previsti dalla legge. Nel 1867 il decano di Taio si accorse che dal 1848 non era mai stato più corrisposto l’onere, per cui Teresa, moglie di Giovanni Battista Inama, proprietaria in quell’epoca del fondo, si impegnò a pagare entro dieci anni la somma di 60 Fiorini. A garanzia del pagamento fu sottoposto lo stesso terreno alle Late, dal quale veniva per sempre cancellato il gravame della fornitura delle tronde. La futura p.f. 647 e 648 agli inizi del Seicento era stata acquistata dagli stessi Mendini che avevano in locazione il terreno di Castel Valer, per cui nella pratica, fatte salve le suddivisioni familiari, il tutto fu goduto come un unico terreno. Più a sud, il terreno contrassegnato dalle odierne p.f. dal n. 652 al 658, era diretta proprietà della mensa vescovile di Trento e faceva parte del così detto Maso Dusati, assieme ad un altro terreno a Ciamblonc, alla casa al Castelet, all'orto, al casale e a un bosco.[36] Del terreno conosciamo due dei primi possessori, Monica (p.f. 652 e 653) e Belino (p.f. 654-658) apparenti nell’inventario dei beni vescovili di Dermulo stilato nel 1275. Dopo di loro si susseguirono alla conduzione del maso e quindi in particolare anche di questo terreno, la famiglia di Benedetto di Campo Tassullo da circa il 1347 fino a circa il 1425; la famiglia Duca di Coredo dal 1425 al 1480, la famiglia Frison di Coredo dal 1480 al 1563 e infine la famiglia Massenza di Dermulo a partire dal 1564 fino alla metà dell’Ottocento.[37] Il terreno fu sempre suddiviso convenzionalmente fra tutti gli infeudati per cui nel Settecento e Ottocento si presentava frazionato in almeno otto porzioni. Queste parti poi furono nuovamente aggregate, per quanto riguardava l’utile dominio, da pochi individui che poi le consolidarono come proprietà effettiva, grazie alla legge sullo svincolamento della gleba. In conclusione il terreno risultò diviso in tre campi, formati dalle p.f. 652 e 653; 654, 655 e 656; 657 e 658. All’epoca della ricognizione vescovile del 1275, le future p.f. 659 e 660 a sud dei terreni della mensa, risultavano ancora coperte da bosco e di proprietà comunale e allo stesso modo apparivano nel 1357. Nel Quattrocento però, il terreno risultava già coltivato e in mano ai Thun di Castel Bragher, la cui proprietà era documentata nel 1465 e nel 1490 anche dai confini sud del terreno della mensa. Dagli urbari di Castel Bragher risulta che il terreno era stato concesso in locazione per svariati anni a Romedio Barbacovi di Dermulo (con una breve parentesi di Antonio Inama). Il periodo temporale è documentato almeno dal 1567 al 1595, dopo di chè il Barbacovi (e i suoi eredi) venne sostituito nella locazione da Concio Massenza. Non sono al momento reperibili altri documenti relativi alla locazione, ma ritengo molto probabile che essa sia proseguita con la famiglia di Concio I, passando per il figlio Cipriano e almeno fino all’omonimo nipote Concio II, morto nel 1686. Dopo tale anno, precisamente nel 1689, appare nella conduzione del fondo Vittore Inama III che aveva acquisito il terreno dagli eredi di Concio Massenza. Stranamente non si è più riscontrata la proprietà Thun del campo, per cui presumo che ci fosse stata una vendita, ad oggi non documentata, ai Massenza o forse allo stesso Vittore Inama. In seguito il terreno entrò a far parte del patrimonio del chierico Vittore IV, figlio di Vittore III e dopo la sua prematura morte, nel 1705 ritornò in mano ai suoi fratelli, Barbara, Giovanni Giacomo e Ottavio. Riguardo al tipo di coltura sui terreni di Ronc, possiamo dire che alla stregua di quelli nelle altre zone, fossero caratterizzati dall’arativo alternato alle stregle di viti. Nel 1705 ad esempio nell’arativo p.f. 659 e 660 era seminato grano ed erano presenti alcuni “arbori fruttiferi” che più tardi si specifica essere un noce e dei gelsi. Nel 1772 abbiamo un elenco di cosa si produceva nella futura p.f. 653: “frumento, formentone, panizzo (miglio), orzo marzuolo e vernizzo, biava e brascato”. Il terreno segnato dalle p.f. 659 e 660 era asservito da una stradina che staccandosi dalla strada per Sanzeno permetteva di raggiungerlo da sud. Nel 1898 la rappresentanza comunale di Dermulo decise di rendere più agevole il percorso che portava alle Laste, costruendo ex novo un tratto di strada che partendo alla fine della citata stradina di Ronc, si congiungeva con la vecchia strada (p.f. 909) che saliva ripida a margine della località Vignal. La nuova strada disegnava una “esse” nel mezzo delle p.f. boschive-pascolive 694 e 695. Oggi alla sommità della p.f. 695, sorge la “villetta” proprietà Lorenzi che fu costruita negli anni Settanta del Novecento da Ermes Vacchini di Roma. Delimitato a nord e da ovest dalla ex strada comunale n. 909, da est dal piccolo rivo (del Vignal) e da sud dalla strada per Sanzeno, troviamo la località Vignal, già così chiamata alla metà del Settecento. Il primo proprietario noto è Giacomo Antonio Inama di Taio, il quale nel 1750 la concedeva in locazione perpetuale a Giovanni Battista fu Bartolomeo Inama per il canone annuo di cinque orne di brascato. In seguito il terreno fu ereditato dai Panizza i quali lo locarono perpetuamente a Giovanni Francesco Inama, il cui figlio Giacomo Antonio divenne proprietario a tutti gli effetti alla metà dell’Ottocento. Oggi sulla parte inferiore del vecchio vigneto sorge la casa di Stefano Eccher. A monte di Ronc, fino al confine con la comunità di Coredo e delimitato a sud dalle Voltoline, si estende il grande bosco, per la maggior parte comunale, del Brusadiz o Late, segnato dalla p.f. 646/1 e caratterizzato nella sua parte centrale dalla presenza del caratteristico affioramento di roccia rossastra, da cui il nome Laste (Rosse). Anche dove la roccia non è così evidente, il suolo comunque risulta molto povero di terra e quindi la vegetazione è molto stentata. Tali caratteristiche hanno favorito la crescita della così detta foiarola, pianta arbustiva, le cui foglie erano utilizzate per la concia delle pelli. Dagli anni Trenta dell’Ottocento è attestata la raccolta della foiarola per tale scopo, con l’indizione di vere e proprie aste, ma sicuramente tale consuetudine era in essere anche antecedentemente. Una delle zone maggiormente interessate alla raccolta delle foglie era proprio il Brusadiz. Non tutto il Brusadiz era proprietà comunale, nella zona delle Laste esistevano delle grandi particelle che, chissà in che modo, erano già in mano ai privati almeno dalla metà del Seicento. Tali boschi si estendevano a cavallo della strada comunale n. 908 e a sud delle Laste propriamente dette. In altre zone marginali, come abbiamo visto sopra, il bosco comunale del Brusadiz era già stato oggetto di bonifica in tempi antichi.
7.8. VOLTOLINE Tra il Brusadiz, il rigagnolo del Vignal e il Pissaracel, ben esposta a sud si estende per circa cinque ettari, la zona delle Voltoline. Il toponimo si spinge anche sul comune di Coredo, dove, poco più in là del confine con Dermulo, sorge la casa colonica facente capo all’omonimo maso. Già nel Seicento i terreni attorno alla predetta casa appartenevano al maso, mentre molti altri verso valle, erano principalmente in mano alle famiglie Massenza e Inama di Dermulo. Nel proseguo degli anni molti di questi campi saranno acquisiti dai proprietari del maso. Altri terreni competevano alla comunità di Dermulo ed in seguito, sempre a causa della cronica mancanza di risorse, analogamente a quanto accaduto al Raut, furono via via alienati a privati. Lo stesso destino è toccato al bosco lungo il rio Pissaracel, ceduto ai dermulani agli inizi dell’Ottocento. L’antica origine comune è provata in un documento del 1381, dove la parte verso il paese delle odierne Voltoline, era detta Sort. Nei pressi delle Voltoline, sul finire del Cinquecento, sorse un contenzioso fra le comunità di Dermulo e di Coredo sull’appartenenza del pascolo e bosco. Tale controversia, nonostante fosse stata emessa una sentenza risolutiva, si ripresentò ancora a distanza di cento anni, con nuove perizie e notevoli spese per le comunità. Da quanto si evince i problemi erano dovuti alla mancanza di cippi confinari stabili. Leggendo l’arbitrato, dove si descrivono più volte i confini, si ritrovano spesso come riferimenti, piante, sentieri, lavine e solo poche volte pietre o rocce inamovibili. Una seconda sentenza fu emessa da Orazio conte di Arsio, capitano delle Valli nel 1672, ma bisogna arrivare al 1706, per risolvere definitivamente la questione con la rinuncia della comunità di Coredo al sito conteso. La comunità di Dermulo però, dovette pagare 7 Troni ai coredani e l’onorario del regolano maggiore Giovanni Michele Tavonatti. Non sono riuscito ad individuare precisamente il luogo interessato alla diatriba, ma presumo si fosse trattato delle p.f. 670, 671, 672 e 673. Tali particelle, a giudicare dalla mappa, si sarebbero ben prestate ad una “invasione” dei coredani. Il maso Voltoline nel 1780, all’epoca della stesura del Catasto Teresiano, apparteneva al conte Giovanni Vigilio Thun di Castel Bragher, al quale era pervenuto dalla famiglia Sicher di Coredo. La zona era coltivata a vite da tempi molto antichi come ci testimonia un documento del notaio Tomeo di Tuenno redatto nel 1374, dove è menzionato un vigneto alle Voltoline, parte di un legato testamentario di un tale Antonio fu Rigo Casse di Pavillo. Ma non solo, la natura viticola della zona traspare anche dal toponimo Vignal, riscontrabile nei documenti fin dal 1750, ma sicuramente molto più antico. Assieme alla vite trovavano posto, come su gli altri terreni, gli immancabili "morari".
Sul
versante opposto delle Voltoline, contraddistinto dal toponimo
Sort, invece,
data l’esposizione poco favorevole e la pendenza più accentuata, il bosco è
rimasto incontrastato per secoli. Solamente nell’Ottocento, a monte della
strada
di Rizzol fu ricavato un arativo. A sud-est del Pissaracel, a monte della via imperiale, il bosco alle Sort era detto anche Praiola, ovvero lo stesso nome del prato a valle della strada stessa. Più a est, circondato da due lati dal bosco, si estendeva il Ciampet, terreno piantato a viti e lambito a valle dalla strada imperiale. Il Ciampet faceva parte degli antichi possessi della famiglia Cordini, più precisamente di Delaito, morto nella prima metà del Cinquecento. Circa nel 1570 i beni appartenuti al figlio Pietro e successivamente ereditati dalla figlia Anna, finirono in mano ai Betta di Castel Malgolo che avevano insediato a Dermulo un masadore. Per molti anni quindi, il terreno al Ciampet rimase nelle disponibilità dei masadori dei Betta. Intorno al 1680 i Betta investirono del terreno, Vittore Tamè, da poco abitante a Dermulo, con un canone di tre quarte di frumento e due stari di segale. (In una di queste locazioni si esplicita che il vecchio documento di investitura ai Tamè era andato perduto). Le investiture proseguirono nel 1708 e nel 1747 con i discendenti di Vittore. Dai Betta, dopo la seconda metà del Settecento, la proprietà passò ai Thun di Castel Bragher, mentre l’utile dominio rimase ai Tamè che, grazie alla legge sullo “Svincolamento della Gleba”, si affrancarono e ne divennero proprietari a tutti gli effetti. Alla fine dell’Ottocento il comune di Dermulo, fece eseguire nel campo dei Tamè dei lavori di captazione dell’acqua destinata a incrementare le disponibilità della fontana della Zità. Oggi dell'antico terreno al Ciampet è rimasto ben poco, in quanto dopo i grandi lavori stradali e ferroviari iniziati alla metà dell'Ottocento, il luogo è completamente mutato. La costruzione della nuova strada erariale ha comportato un importante sbancamento per rendere pianeggiante la zona, ed il materiale ricavato, ritengo sia stato trasportato e versato dove poi, nel 1926 sarebbe stata costruita la casa n. 48 dei Gusloti.
8.1. IL BOSCO COMUNALE Nei secoli scorsi una considerevole superficie di territorio a monte del paese era di pertinenza comunale. In seguito la comunità di Dermulo assegnò una parte di bosco ai vicini, suddividendola in base al numero dei nuclei familiari con estrazione a sorte, da ciò è derivato il toponimo “alle Sort”. I boschi distribuiti ai privati si estendevano ripidi, a monte del Pissaracel fino alla sommità in località Plazzec, dove spianavano confinando con la terra coltivata. Le particelle erano attraversate da due strade quasi parallele (p.f. 900 e 901) di cui la prima (più a monte) ad un certo punto si arrestava, mentre la seconda proseguiva attraversando la localtà Rizzol, fino a raggiungere Coredo. La proprietà comunale nella zona del Plazzec, Risola, Ciamblonc e Somager con il passare degli anni subì una progressiva contrazione a favore della terra coltivata. Alcune operazioni di bonifica sono testimoniate a metà Settecento con la comparsa del toponimo ai Novai, che si può individuare con le p.f. 794 e 795 a Ciamblonc. Nello stesso luogo, appartenevano in gran parte alla comunità le p.f. 826 e 827, e una striscia di terreno a ovest della p.f. 858. A Risola, località che prende il nome dal piccolo rivo che scorre in direzione sud-nord fra le p.f. 763 e 769 e tra le p.f. 764 e 768, verso la metà del Settecento, le future particelle 781 e 798 furono assegnate a Gaspare Inama che ne ricavò degli arativi. Intorno al 1820 fu ricavato un altro terreno a nord dei precitati che possiamo riconoscere nella p.f. 780. Un ultimo baluardo di proprietà comunale era rappresentato ancora fino al 1773 dalle p.f. 871 e 872. In quell’anno furono poi livellate a Francesco Mendini e quindi divennero proprietà privata (oggi denominate “al Perota”). Nel 1871 la rappresentanza comunale di Dermulo frazionò il pascolo a Somager in località Pasturela (p.f. 828) in sei porzioni che furono poi assegnate, mediante un’asta, ad altrettanti paesani. Gli assegnatari furono Filippo Eccher, Pietro Inama, Pietro Emer, Giovanni Endrizzi, Vigilio Tamè e Felice Eccher. Attualmente la p.f. 828 risulta frazionata in almeno dieci particelle, di cui un paio, sono ancora proprietà comunale, mentre le restanti appartengono quasi tutte agli eredi dei primi assegnatari. A nord della Pasturela (p.f. 828), fra questa e il bosco comunale p.f. 771, alcuni boschi denominati Teza, erano in mano ai privati (p.f. 790, 791 e 792). Nel 1890 dopo la preventiva autorizzazione chiesta alle autorità di Innsbruck, dalla predetta p.f. 771, fu scorporata una porzione di bosco poi assegnata mediante un’asta a Eugenio Inama, Eugenio Eccher e Giuseppe Inama. Furono ricavati quindi i tre terreni individuati con le p.f. 771/2, 771/3 e 771/4 (successivamente quest’ultima, fu ulteriormente frazionata dando origine anche alla p.f. 771/5) In una di queste p.f. erano stati sepolti in una fossa comune, i morti di colera del 1855, per cui si rese necessario il recupero delle ossa ed il loro trasporto nel cimitero di Dermulo. A valle delle predette particelle si estendeva dal Rivalent fino alla zona in passato denominata “Sora le Ciase”, il terreno coltivato di Somager, individuabile nelle odierne p.f. 788, 789, 3 e 4, che fino alla costruzione delle strada erariale formava un corpo unico. Il toponimo Somager è fra i più antichi giunti fino a noi, essendo menzionato nel 1275, come un terreno proprietà della mensa vescovile, ascritto al maso di Martino Bozolo. Grazie alla caratteristica, di essere l’unico terreno coltivato che all’epoca poteva avere questo nome, possiamo indubbiamente riconoscere l’antico terreno con le p.f. 788, 789, 3 e 4. Oggi la superficie agricola si è ridotta considerevolmente, a causa della strada, dei binari della ferrovia e di altre costruzioni.
8.2. PLAZZEC E OSELERA A est del Ciampet e della strada comunale (p.f. 900/1), alcuni boschi privati denominati, a volte Sort e altre volte Plazzec, culminavano nel pianoro sovrastante, denominato Plazzec e Oselera. Quest’ultimo toponimo che, almeno su territorio di Dermulo, sembra essere di recente introduzione (seconda metà dell’Ottocento) in molti campi si era sostituito al Plazzec. L’oselera era il luogo dove si praticava l’uccellagione, ovvero la cattura degli uccelli tramite reti. L’attività prevedeva l’esistenza di un cosidetto roccolo, cioè una piccola costruzione, dove il cacciatore si appostava per poi far scattare la rete al momento propizio. Infatti nella futura p.f. 739 era stato edificata tale costruzione, di cui abbiamo la prima notizia nel 1800. In quell’anno il proprietario Giulio Chilovi di Taio, dava in locazione a Giacomo Endrizzi di Dermulo la piccola struttura ed il terreno circostante. In tale occasione il roccolo era così descritto “una casetta giacente entro il fondo contente a basso una cucina di muro, una camera di assi al di sopra ed indi un casotto pure di assi col suo coperto inserviente per l’uccelliera.” Della costruzione oggi non c’è più traccia in quanto demolita negli anni Quaranta del Novecento. Ottavio Depaoli, uno dei proprietari del Maso Rauti, mi aveva riferito che conservava un debole ricordo del roccolo. Nel libro fondiario si trova il toponimo “Sotto il Roccolo”, che designava la parte di terreno a valle della costruzione. Durante l’Ottocento l’esercizio dell’uccellagione al Maso Rauti veniva tassato annualmente dal comune di Dermulo per l’importo di 10 Fiorini. Nell’Ottocento all’Oselera, una porzione di bosco comunale assegnato durante l’impianto catastale al comune catastale di Dermulo e contraddistinto dalle p.f. 732 e 733, fu oggetto di contesa fra le comunità di Dermulo e Coredo. Quest’ultima, probabilmente a ragione, ne reclamava la pertinenza tantè, che effettivamente le due particelle passarono al comune catastale di Coredo. Della questione non ci sono molte notizie, se non l’evidenza, sulla mappa catastale del 1859, delle p.f. interessate racchiuse fra due linee di confine e con le scritte “Linea pretesa dal Comune di Dermullo” e “Linea pretesa dal Comune di Corredo”. Nell’archivio comunale di Dermulo con un atto del 1885, si prendeva atto della segregazione delle p.f. interessate e si disponeva la rettifica delle mappe. Presumo che il tutto fosse nato da un errore di attribuzione delle p.f. a Dermulo, durante l’impianto del catasto e non da vecchie diatribe, come ad esempio quelle presenti nella zona delle Voltoline che si trascinarono per secoli. A prova di ciò, abbiamo l’assenza quasi totale di documenti inerenti il caso, anche perché, essendo le particelle proprietà privata, dal punto di vista economico poco cambiava appartenessero all’uno o all’altro dei comuni. I boschi delle Sort appartenenti in antico ai Dermulani, con il passare degli anni finirono per la maggior parte in mano a persone di Taio. Nel Seicento infatti, ad esclusione degli onnipresenti Mendini e Inama, troviamo fra i proprietari i Barbacovi, i Conci, i Fuganti, i Cordini e specialmente i Chilovi che, nel secolo successivo, diventeranno i maggiori possessori “foresti”. La zona sommitale dei boschi di pini e querce che si originavano a sud della strada consortile n. 900, la cui traccia oggi si fatica a scorgere, denominata Plazzec ed in mano ai dermulani, fu gradualmente assorbita dai proprietari del confinante Maso Rauti. Stessa sorte toccò a molti terreni di Ciamblonc.
8.3. CAMPOLONGO L’ampia zona di Campolongo (Ciamblonc) si estende sulla sinistra del Rizan a monte della Strada delle Braide, fino alle proprietà comunali del Somager. A nord poi confina con la località Risola a est con il Plazzec e con i terreni del Maso Rauti, e a sud est, con le proprietà dello stesso maso. Sovrapponendo l’attuale mappa catastale con quella del 1859, si può constatare come a Ciamblonc sia avvenuto uno scompiglio particellare che non ha riscontri per le altre zone. Molte particelle fondiarie non sono corrispondenti per superficie, e altrettante sono del tutto sparite. Sono scomparse strade comunali e consortali, in compenso ne sono apparse di nuove, per cui non è stato facile riconoscere i vecchi appezzamenti. Ma il problema non è circoscritto agli ultimi 150 anni, perché la stessa situazione, la troviamo comparando i terreni descritti nel Catasto Teresiano e quelli apparenti nella prima mappa catastale. La difficoltà inoltre, è stata ulteriormente amplificata, dalla non corretta identificazione dei quattro punti cardinali dei vari terreni citati nei documenti. Nello specifico, a volte, ma non sempre, quello individuato come “nord” era in realtà “ovest”, per cui molti riferimenti sono risultati incerti. A monte della strada delle Braide troviamo un lungo terreno formato principalmente dalle p.f. 846 e 848 che si estendeva in passato dalla strada n. 894 fino al pascolo comunale della Pasturela. Verso la fine del Settecento appartenevano a Antonio Fuganti di Taio. (Lo stesso che possedeva a livello il Maso Rauti). In precedenza, invece, il terreno apparteneva a Giacomo Massenza e a Silvestro Inama. In questi terreni potremmo forse riconoscere l’antico possesso vescovile di Tores-c, anche se alcuni aspetti non sono del tutto chiari.[38] A monte di questo terreno si estende la grande particella n. 849 che è il risultato dell’accorpamento di diversi terreni portato a termine da Giacomo Mendini III sul finire del Settecento. Il primo a valle era appartenuto nel Seicento a Bartolomeo Massenza, il terreno subito a monte, nello stesso periodo era di Gregorio Endrizzi, poi troviamo Cipriano Inama e in cima, gli stessi Mendini con l’antico terreno di famiglia. A ovest della p.f. 849 si trovavano alcuni appezzamenti denominati Curte, abbreviazione di “stregle curte”. In particolare le p.f. 853 e 855 appartenevano alla mensa vescovile per cui, essendo questo terreno specificatamente collegato alla casa di Dermulo, conosciamo il nome dei primi possessori. A partire dalla metà del Cinquecento, il terreno, originariamente costituito da un’entità unica, fu posseduto dalla famiglia Massenza. L’inequivocabile collocazione del terreno mi ha permesso, grazie all’elencazione dei confinanti, di conoscere l’antica proprietà di altri campi posti nelle vicinanze. In particolare ciò si è reso possibile nel Cinquecento, per il terreno a monte (p.f. 856) appartenuto alla famiglia Cordini, per quello a valle (p.f. 851, 852) appartenuto a Valentino Inama I. Ma ancora più interessante è stata la determinazione succedutasi a cascata per i terreni posti ancora più a distanza, grazie al nominativo di Enrico Parteli di Sfruz. Il Parteli alla metà del Cinquecento, non si sa in che modo, possedeva la parte a monte della futura p.f. 849. In altri documenti del Cinquecento riguardanti Ciamblonc, lo stesso Parteli è citato più volte come confinante, per cui possiamo affermare che nel circondario della sua proprietà avevano possessi i Pret di Dermulo, il notaio Micheli di Coredo, Francesco Massenza, i Thun e Baldassarre Cordini. I terreni alle Curte, rispetto a quanto mostrato presentemente, hanno subito delle consistenti modifiche e frazionamenti in seguito a delle piccole ma sistematiche acquisizioni da parte della famiglia Mendini. Le ultime di tali acquisizioni erano avvenute a metà Ottocento quando si stava approntando la prima mappa catastale, per cui ne è rimasta traccia nelle correzioni segnate in rosso su tale mappa. A tal proposito, come già affermato sopra, bisogna osservare che le particelle di questa zona presentano alcune imprecisioni riguardo a forma ed estensione. Allo stesso modo dei terreni della mensa, anche l’individuazione sicura del terreno del santuario di San Romedio nelle future p.f. 873 e 876, ha permesso poi conseguentemente, di individuare altri terreni altrimenti di difficile collocazione. Il motivo della presenza del terreno del santuario nelle pertinenze di Dermulo, va probabilmente ricercato in un lascito testamentario o in una donazione avvenuta verso la metà del Seicento. Non ci è noto chi fosse stato l’autore di tale lascito, possiamo però azzardare delle ipotesi che vedono come soggetto più probabile, qualche membro della famiglia Massenza (alla qual famiglia il terreno era poi stato concesso a livello) oppure, qualche rappresentante della confinante famiglia Cordini. In tal caso il campo potrebbe essere appartenuto a uno dei due fratelli Cordini, Nicolò e Giovanni Antonio che intorno al 1650 si erano allontanati da Dermulo senza farvi più ritorno. Le loro proprietà furono in gran parte alienate per soddisfare i creditori.[39] A monte del campo di San Romedio, identificabile nella porzione nord della p.f. 874-875, troviamo il terreno che sul finire del Seicento apparteneva a Simone Cordini, e che poi transitò ai Panizza. Quest’ultima famiglia lo aveva concesso a livello perpetuo a Tommaso Massenza. Interessante risulta il legato del 1726 di Maria vedova di Tommaso che, riguardo i frutti “di un suo albero nomato pomaro” presente su questo terreno, stabiliva che dovessero spettare alla figlia Maria, senza pretese del fratello Giuseppe. A nord di questo si estendeva il terreno formato dalle p.f. 858 e 859, dalla ragguardevole superficie di 24 stari.[40] Dai molti documenti relativi a detto terreno, si è capito che originariamente era formato da almeno sette porzioni che nel tempo furono accorpate e frazionate più volte a seconda dei bisogni dei vari proprietari succedutisi. In una di queste porzioni possiamo riconoscere il primo terreno acquisito dalla famiglia Emer dopo il suo arrivo a Dermulo; la porzione a ovest invece, apparteneva alla comunità di Dermulo. Le altre parti furono acquisite poi dalla famiglia Emer, ma in seguito alienate ai Gilli, Ziller, Massenza, Inama e Mendini. Gli ultimi passaggi di proprietà importanti sono da collocare nella seconda metà dell’Ottocento, quando dai Chilovi transiterà ai fratelli Mendini proprietari del Maso Rauti, i quali lo accorperanno alle confinanti p.f. 849 e 860. Quest’ultima particella, a ovest del Rizan e coltivata a prato, (da cui il nome della località Pradi), apparteneva al Maso Rauti già al momento della sua fondazione. Sul lato sinistro del Rizan, racchiusi fra la strada di Vin e quella delle Braide, si trovano alcuni terreni denominati ai Plani che, nonostante siano oltre i rivo, e quindi teoricamente sul territorio di Taio, appartengono invece a Dermulo. Praticamente, anche se con molta meno superficie in ballo, ci si trova di fronte ad una situazione simile a quella di Ciavauden, dove Sanzeno sembra aver invaso il territorio di Dermulo. In questo caso però la parte di usurpatore spetterebbe a Dermulo “appropriatosi” di territorio oltre il Rizan. I campi in parola, sono sempre stati appannaggio di persone di Taio (nel Settecento dei Fuganti) fino agli ultimi anni dell’Ottocento, quando furono acquisiti dai fratelli Mendini che gli aggregarono al loro maso. A monte della Strada di Ciamblonc, a partire dal bivio per Risola fino alla casa di Sergio Depaoli, si estendevano fino ad arrivare ai confini del Plazzec diversi terreni nominati a Ciamblonc. Sul finire degli anni Settanta del Novecento, fu costruita una nuova strada che permetteva di raggiungere la casa di Pio Depaoli, senza transitare per quella vecchia che passava davanti all’abitazione di Sergio Depaoli. La strada poi si congiungeva con la via che portava a Coredo. I lavori stradali hanno provocato il frazionamento di molte vecchie particelle della zona di cui stiamo parlando. Nel Settecento e per buona parte dell’Ottocento, esistevano ancora in questa località molte parti di terreno proprietà della comunità. Da molti documenti è stato possibile capire, ad esempio, che la futura p.f. 826 nel 1710 era circondata da possessi comunali. Lo stesso terreno, che era posseduto dalla famiglia Tamè, in precedenza sicuramente apparteneva alla comunità dalla quale poi transitò a privati. E’ interessante notare anche che la parte comunale a valle del predetto terreno, proseguisse come una striscia di terra incolta o boschiva anche a valle della p.f. 824, fino al confine con il territorio di Coredo. Su questa fascia, probabilmente ampliando un precedente sentiero, fu poi tracciata una strada pubblica, ancora esistente, ma solo nella sua parte iniziale. I terreni a monte della p.f. 826 anticamente proprietà comunale, nel Settecento furono assegnati ai privati che procedettero alla loro bonifica. La loro origine si distingue chiaramente dal nome Novai o Novali, come venivano individuati. Anche il maso ha preso il nome Rauti dai vari terreni che nel Settecento, in quella località si presentavano bonificati. Verso sud, al confine con il comune catastale di Coredo, contraddistinto dalle p.f. dal n. 812 al 820 giaceva un terreno che alla metà del Settecento apparteneva a Giovanni Battista Inama II e che poi fu suddiviso fra i suoi tre figli Giovanni Battista, Giovanni e Antonio. Dopo vari passaggi intermedi, tutte le porzioni furono acquisite dai fratelli Mendini, proprietari del Maso Rauti. Altre due p.f., 821 e 822 (oggi scomparse e aggregate alla p.f. 858/1) e poste a valle dei terreni sopraccitati, appartenevano nel Seicento a Simone Cordini. In seguito transitarono ai Panizza che le avevano concesse a livello ai Massenza e successivamente ad Alberto Inama di Fondo che a sua volta le aveva concesse a livello a Silvestro Inama. La parte di Ciamblonc giacente a est di Risola e a monte dell’odierna strada che conduce al maso, si presentava meno fertile di quella a sud. Specialmente in passato, a causa della poca disponibilità di acqua irrigua e per la natura rocciosa del terreno, ampie superfici erano rimaste incolte e classificate nel catasto come improduttive.
8.4. IL MASO RAUTI Il maso dei Rauti o delle Plazze o della Fam era costituito da una casa rustica, edificata nella prima metà del Settecento e posta sul territorio di Coredo a poca distanza dal confine con Dermulo e da diversi terreni dislocati su entrambi i comuni appena citati. La zona apparteneva nel Seicento alla famiglia Concini di Taio che poi la cedette alla famiglia Rizzardi di Coredo. I Rizzardi nel 1778 investirono perpetuamente del maso Antonio Fuganti di Taio che appare infatti come possessore nel Catasto Teresiano. Intorno al 1784 i Thun di Castel Bragher subentrano al Fuganti acquistandone l’utile dominio. Nel 1838 i Thun alienarono l’utile dominio del maso a Giuseppe Mendini di Taio che venne in possesso del maso pagando la somma di affrancazione ammontante a circa 1600 Fiorini. Ed infine i suoi discendenti lo cedettero a Giuseppe Depaoli di Monte Terlago nel 1909. Per quanto riguarda il territorio di Dermulo, l’unico terreno arativo che apparteneva al maso era costituito dalle future due grandi particelle n. 736 e 738. Inoltre c’erano un bosco ed un prato individuabili rispettivamente nelle future particelle n. 734 e 860. Tutti gli altri terreni del maso insistevano sul territorio di Coredo. L’acquisizione sistematica di altri terreni ebbe il suo maggiore impulso sul finire dell’Ottocento, quando i proprietari del maso erano i fratelli Mendini di Taio. I Mendini si accaparrarono i vari boschi e arativi confinanti a nord e a ovest con le suddette p.f. 736 e 738 e pure tutte le p.f. dal 812 al 822 a Ciamblonc. A Campolongo gli stessi Mendini possedevano un grande arativo antico di famiglia riconoscibile nella p.f. 849 al quale poi aggregarono altri terreni confinanti di più modesta superficie (p.f. 853-854-855) e la estesa p.f. 858-859 accorpata al prato verso il rivo di Rizan, costituita dalle p.f. 860 e 861. Quando il maso fu alienato ai Depaoli, quindi, ricomprendeva anche le consistenti acquisizioni portate a termine dai Mendini. In questa occasione si erano formati dei nuovi toponimi derivanti dal nome dei vecchi proprietari di cui alcuni esempi sono: Perota, Bambin, Lorenzin e Batan. Sulla mappa del 1859 in corrispondenza della p.f. 735 che si trova per metà sul comune catastale di Dermulo e per l’altra metà su quello di Coredo è visibile una costruzione di colore azzurro che io reputo corrisponda ad una vasca per la raccolta dell’acqua. Oggi di tale manufatto non c’è traccia.
8.5. LE BRAIDE L'ampia zona denominata Braide, toponimo di origine longobarda designante i terreni coltivati nei pressi dell'abitato, è racchiusa a sud dal Rizan e dagli altri lati, dalle strade. All’interno del toponimo principale, insistevano altri microtoponimi oggi scomparsi quali le Braidele, le Stregle Longe e il Pian. Il luogo, esteso per poco più di cinque ettari, ben si prestava alla coltivazione per la sua favorevole esposizione e per la poca pendenza. Oltre alle strade delimitanti di cui si è già accennato, che scorrono e scorrevano quasi parallele alle estremità est e ovest, per poi congiungersi a nord, tutta la zona è divisa in due porzioni da una strada che collega in direzione est-ovest le due vie principali. Nei vecchi documenti la strada non è mai citata come confine a nord o a sud dei vari terreni. Appare invece nella mappa catastale del 1859 con il n. 885, per cui la sua esistenza è da considerare relativamente recente. A nord della citata strada, i vari appezzamenti sono disposti in direzione nord-sud e degradano verso l’odierna strada statale. Proprio in prossimità di questa, sono avvenute le più grandi trasformazioni che hanno cambiato sensibilmente la faccia del luogo. Per prima cosa la costruzione della strada stessa, avvenuta intorno 1855 e che solo in parte aveva calcato il tragitto della vecchia via imperiale. Infatti, provenendo da Taio, in corrispondenza dell’attuale bivio per via Strada Romana, la strada proseguiva dritta con un tracciato ex novo, andando a dividere i terreni incontrati lungo il percorso. A subire tale sorte fu per primo proprio l’appezzamento più a nord delle Braide, detto Braidele, localizzato alla confluenza tra la strada imperiale e la strada che scendeva dalle Braide. La piccola parte rimasta a valle della nuova strada, riconoscibile nelle p.f. 7 e 8, da quel momento seguì un destino autonomo rispetto alla parte a monte. Quest’ultima divenne il sedime per la nuova casa di Giuseppe Endrizzi costruita nel 1926. Con la nuova strada venne pure ridotto a passaggio pedonale il collegamento con la sottostante ex strada imperiale, nei pressi del Rivalent. Un altro stravolgimento è avvenuto nei primi anni Sessanta del Novecento, quando fu abbandonato il vecchio percorso della ferrovia Trento-Malè che fino ad allora occupava una parte dello stradone, adottandone uno nuovo, poco più a monte. I terreni interessati all’attraversamento, subirono quindi un ulteriore frazionamento che, in alcuni casi, compromise quasi completamente l’utilizzo agricolo. Risalgono alla prima metà del XV secolo le prime notizie sui proprietari di terreni alle Braide. Qui nel 1434, sul terreno alle Stregle Longe individuabile nelle p.f. 831 e 835, una persona di Dermulo di nome Inama, ricevette la prima investitura della decima dai Thun di Castel Bragher. L’investitura venne rinnovata nel 1452 ad Antonio e ai suoi fratelli, figli del fu Inama ed in tale occasione, veniamo a sapere che il terreno oggetto di investitura confinava con gli eredi del fu Vigilio, con gli eredi del fu Delaito e con Gregorio Tencio (Gregorio Mendini). Già dai primi anni del Cinquecento gli investiti della decima appartenevano alla linea Inama di Fondo, ai quali il terreno rimase fino alla metà dell’Ottocento. Alla porzione di terreno iniziale, dopo la metà del Cinquecento, si aggiunse il terreno oggi formato dalla parte nord della p.f. 829 e le p.f. 7 e 8 (Braidele), acquisite dai discendenti di Giovanni Inama e da Antonio fu Marino Inama e il terreno (o forse una sua parte) contrassegnato dalla futura p.f. 831 proprietà della famiglia Mendini. Proseguendo verso monte, l’odierna p.f. 829 apparteneva ai Cordini e molto probabilmente in precedenza al Delaito più sopra accennato. Il terreno fu poi acquisito da Ercole Inama e quindi confluì nel Seicento, assieme ad altri beni nel maso Guelmi, poi Martini. Tutti i terreni sovrastanti, contraddistinti dalle p.f. dal n. 836 al 844, sul finire del Cinquecento appartenevano ad un unico proprietario, Marino Inama III. Dopo la sua morte il terreno fu suddiviso in tre porzioni fra i figli, per cui troviamo Cipriano II in possesso della futura p.f. 836, Antonio delle p.f. 839-840 e Bartolomeo delle p.f. 841 e 844. Gli ultimi due fratelli non ebbero discendenza mascolina per cui i terreni cambiarono casato rispettivamente coi Massenza e Lorenzoni di Cles. Nel 1662 Giovanni Battista Inama figlio del fu Valentino, altro figlio di Marino III, acquistava dai Lorenzoni le p.f. dal 841 al 844. La p.f. 836 subì la stessa sorte delle altre ma una generazione dopo. Infatti alla morte di Cipriano II era transitata al figlio Marino IV e da questo alla figlia Maria che alienò il terreno ai Panizza. Da questi pervenne ai Thun che nel 1783 la trasferirono a Giovanni Francesco Inama in cambio di un prato a Rizan. (Nel 1706 su questa particella si disse essere presenti una pianta di pero e una di noce.) Le p.f. 841 e 844 passarono poi da Giobatta Inama al notaio Udalrico Barbacovi il quale le cedette ai Mendini. I Mendini negli anni successivi procedettero ad acquisire gli altri terreni circostanti, fino a che, nel 1756, Giacomo III si ritrovò essere l’unico proprietario delle p.f. dal numero 838 al 844. Tutto il terreno dopo la morte di Giacomo, presumo sia pervenuto al figlio Giacomo Antonio abitante a Sanzeno, il quale direttamente, o a mezzo dei suoi figli lo alienò a Giovanni Francesco Inama. Nel 1783, come visto sopra, quest’ultimo aggiunse ai predetti terreni anche la p.f. 836 tramite una permuta con i conti Thun. Dopo la morte di Giovanni Francesco il terreno perse nuovamente la sua integrità a seguito delle divisioni fra i figli. A sud della strada p.f. 885 invece, racchiusa fra la via imperiale, la Strada delle Braide e il rivo Rizan, sul finire del Settecento, si estendeva la grande proprietà dei Thun. La superficie di quasi tre ettari, si riconosce nelle p.f. dal n. 877 al n. 884. Questa zona era denominata in Pian e corrispondeva all’antico toponimo in Plano che nell’elenco dei beni vescovili del 1275, compariva in possesso di tali Mazono e Zaneta. Troviamo ancora lo stesso luogo citato in un documento del 1357, mediante il quale Michele fu Simone Thun abitante a Castel Bragher, definitosi lui stesso locatario, dava l’arativo in locazione perpetuale a Nicolò fu Delaito di Dermulo. La discendenza di Nicolò si arrestò con Margherita che andò in moglie a Nicolò Cordini di Taio. Con il matrimonio la cospicua sostanza dei “Delaiti” transitò ai Cordini, fra cui anche il terreno in Plan. Infatti da documenti cinquecenteschi tutta la zona risultava suddivisa tra i figli dei due fratelli già defunti, Giovanni e Delaito Cordini. Dopo la morte dei cugini Anna e Martino nipoti di Delaito, il terreno pervenne alla famiglia Inama. Nei primissimi anni del Seicento infatti, il terreno che possiamo riconoscere nelle attuali p.f. 878, apparteneva a Vittore Inama II e nella sua porzione a valle della Strada delle Braide era detto ancora in Plan. Dopo la morte di Vittore II il terreno passò in proprietà al figlio Silvestro II. Nel 1681 una sottoporzione di questo, orientativamente corrispondente alle attuali p.f. 878/4-5-6-7, accreditato di una superficie di ben 19 stari, era andato a costituire, assieme al fondo al Blaum, il patrimonio del sacerdote don Silvestro figlio di Vittore III, nipote di Silvestro II. In seguito alla morte del sacerdote, presumibilmente avvenuta poco dopo, il terreno tornò in famiglia e fu assegnato ai fratelli Ottavio, (p.f. 878/6-7) e Giovanni Giacomo (p.f. 878/4-5). A valle delle predette porzioni le future p.f. 878/1-2-3 e 880, nello stesso periodo erano state assegnate a Giacomo II, fratello di Vittore III e poi pervennero al figlio Silvestro III. L’ultima porzione detta “Braide di Sotto”, a monte della strada imperiale e segnata dalla p.f. 883, appartenne nei primi anni del Settecento al sacerdote Vittore, figlio di Vittore Inama III. Questa a seguito della prematura morte del prete, passò alla sorella Barbara e da questa al fratello Giovanni Giacomo I. In tutti questi passaggi non ho mai trovato accenno ai veri proprietari, ovvero i dinasti di Castel Bragher, che però sicuramente lo furono fin dal 1357, anche se forse non con continuità. Il loro nome appare sul finire del Settecento ed è confermato dal Catasto Teresiano. Dal 1799 tutto il terreno fu locato a tale Andrea Larcher di Romeno che fu l’ultimo affittuario, dopo di che Teresa Thun, vedova di Arbogasto, a metà Ottocento, pose in vendita il terreno. La maggior parte fu acquisito dai fratelli Rosa e don Domenico Tamè e una porzione minore costituita dalle p.f. 882 e 883 da Giuseppe Cescati di Taio. I fratelli Tamè poco tempo dopo cedettero quasi tutto il terreno ai fratelli Lorenzo, Urbano e Pietro Inama trattenendo per loro solo le p.f. 880 e 881. Tra gli arativi e il Rizan esisteva una striscia prativa (p.f. 877/1-2-3-4-5, 881 e 882) proprietà di Castel Bragher (forse non tutta) che era sistematicamente locata in perpetuo a varie famiglie, quali i Gilli, i Cordini e i Mendini.
[1] Questa ipotesi stride con quanto finora dato per certo, ossia che il collegamento fra il distretto di Dermulo e di Sanzeno fosse avvenuto per mezzo del Pont dela Mula. A questo punto viene da chiedersi a che uopo la strada principale per Sanzeno, ancora nei pressi di Ciavauden, detenesse già nel Seicento, la qualifica di “imperiale”. Poteva una strada imperiale assurgere a tale grado, se poi ad un certo punto rimaneva priva di sbocco? O forse, a Ciavauden ripiegava a valle per scendere al Ponte della Mula per l’ancora oggi visibile e percorribile stradina attraverso il bosco della Zurlaja? Oppure dopo Ciavauden la strada proseguiva fino ad incontrare il fosso del Rio San Romedio per poi ripiegare a monte e proseguire per Tavon? Reputo poco probabile quanto appena esposto per cui propendo per l’esistenza di un vecchio ponte, nei pressi di quelli oggi esistenti. Infatti nei suoi “Annali overo Croniche di Trento” (libro VIII pag 174) Giano Pirro Pincio affermava che sul rio San Romedio, non lontano dalla sua confluenza con il Noce, esistevano all’epoca (1546) due ponti: quello Regaiolo (Pont dela Mula) quello di Sanzeno. Quindi il ponte della strada imperiale era detto “di Sanzeno” e corrispondeva a quello che appariva nelle vecchie mappe, in concomitanza con gli antichi mulini, per cui la strada, ricevendo la via che scendeva da Tavon, proseguiva fino a Sanzeno. [2] Il toponimo inizialmente mi ha messo in difficoltà, in quanto i quattro confini relativi ad alcuni terreni, erano incompatibili con la zona che oggi si denomina Ciaseta. Dopo aver scoperto che si stava parlando di Ciaseta, anche a monte della strada per Sanzeno, tutto ebbe una spiegazione. [3] Dai documenti del Trecento e Quattrocento, traspare che i proprietari dei terreni erano persone abbastanza agiate e per la maggior parte non residenti a Dermulo. [4] La stregla sembra non corrispondesse esclusivamente ad un filare, ma ad una striscia di terreno comprendente uno o più filari di viti, alternate con l’arativo (vanezza). [5] Questo obbligo trova la sua origine in un affitto perpetuo annuale di 6 mosse olio, che nel 1618 doveva pagare Floriano Inama di Fondo, e che era assicurato originariamente su una terra arativa e vignata a Dermulo nel luogo al Marzol. Nel 1766, le 6 mosse di olio non comparivano più come aggravio della famiglia Inama di Fondo, essendo 5 mezze transitate alla famiglia Bombarda di Coredo, (radicate sul maso Voltoline, o forse solo su alcun terreni di questo) e mezza, divisa in una frachela per ciascuno, a Silvestro Inama (affittuario dei Rizzardi del terreno al Bertus) e Silvestro Rizzardi (proprietario di Sass). Vedi la pagina sulle Contribuzioni di olio. [6] Nel 1573, Antonio Berti di Rallo, locatario del mulino di Ploà, acquisì da Enrico Endrizzi di Don, a sua volta locatario della mensa vescovile, una gran parte del terreno boschivo denominato Traina che quindi diventò una pertinenza del mulino. [7] Dal punto di vista genealogico, è interessante seguire il cammino del vecchio locatario investito a Plouà nel 1467, tale Concio. Nel 1491 veniva investito Corrado Han del fu Corrado Han di Würzburg in Baviera. Il Corrado padre è da identificarsi con il Concio sopraccitato, infatti Concio è l’italianizzazione del tedesco Konrad. Nel documento veniva specificato con la frase “ovvero Gal(lo)” cioè la traduzione in italiano di Hahn. Nello stesso anno 1491, risultava che Plouà fosse locato ad un tale Zanolus e nel 1527, con lui già defunto, ai suoi figli Bartolomeo e Leonardo. Ebbene, Zanolo era il soprannome di Corrado junior, derivato dal diminutivo dialettizzato di Han, cioè Gial e poi Zanol. La famiglia proseguì la locazione del mulino fino al 1561, riconosciuta col distintivo Zanoli e poi fa perdere le sue tracce. Credo però che indagando, si riuscirebbero a scoprire altri discendenti, forse confusi con il cognome Zanolli, originatosi invece dal nome proprio Giovanni. [8] Dall’archivio di Castel Valer, sono emersi due fatti di cronaca inerenti il mulino di Plouà che in qualche modo riguardavano anche Dermulo. Uno relativo all’anno 1539, quando viene riferito il ritrovamento, nei pressi del mulino, del corpo senza vita della giovane Anna, figlia di Antonio del Marin (Inama) di Dermulo. La ragazza, annegata nel Noce, era stata recuperata da Stefano Massenza e da Cristoforo Cordini di Dermulo. L’altro fatto, si riferisce all’assalto, dato da un gruppo di sette/otto persone al mulino nel 1662, con lo scopo di uccidere il mugnaio Giovanni Valentini. Al comando del gruppo c’era Giacomo figlio di Silvestro Inama di Dermulo. Purtroppo non conosciamo il seguito e nemmeno il movente di tale azione, possiamo solo ipotizzare un comportamento disonesto del mugnaio nei confronti di tali persone. [9] Da quanto si rileva dai vari documenti di investitura, sembrerebbero incluse nelle proprietà vescovili anche le future p.f. 176 e 177. Affermo questo perché del piccolo distretto con al centro la casa del maso, sono chiaramente sempre elencati tre confini naturali, ovvero la via comune, il rivo e il comune e un quarto confine riferito ad una persona. Quest’ultimo bordo che nelle più antiche attestazioni era assegnato agli eredi del fu Nascimbene, non si può riconoscere nelle future p.f. 176 e 177, ma nella Clesura oltre al rivo. Tale asserzione è confermata da tutte le altre investiture dove appaiono confinanti solo membri della famiglia Mendini, sicuramente estranei alle p.f. 176 e 177. Nel 1275 la zona si dice confinare con Domino e questo apre nuovi scenari riguardo alla Clesura. [10] I motivi su cui discutere riguardo alla Chiesura sono almeno due: la compresenza di due luoghi denominati Clesura, entrambi proprietà Thun, locati a persone diverse e con canone diverso, esattamente una con 4 stari e l’altra con 16 di frumento; il nome della Clesura locata per 16 stari, contraddistinta a volte con “Clesura al Castel” a volte con “possessione al Castel”. I due canoni differenti mi avevano fatto pensare a due luoghi differenti, ma ciò non è necessariamente vero. Infatti per un terreno molto esteso, quale poteva essere la Clesura, non era certo impossibile che fosse stato diviso in due entità e locato a persone diverse. Lo stesso luogo chiamato Clesura presentava una morfologia per la quale poteva essere riconosciuto in due appezzamenti. Ad esempio una “clesura piccola” poteva essere quella racchiusa fra la strada che saliva dal Borgo, a sud della casa 16-17-18. La “clesura grande” a nord del rivo, a sud della Ciavada e a ovest della via per Sanzeno. Veniamo ora alla specificazione “al Castel”. Questa cosa mi ha fatto fare molteplici ipotesi come ho esposto sopra, credendo più attendibile quella che riconosceva la Clesura, grosso modo con il futuro Campet. Invece ora ritengo che “al Castel” fosse stato usato in quanto la casa al Castel e le sue pertinenze sovrastavano e confinavano con la classica Clesura, anche se il Pissaracel le divideva. A confermare questa vicinanza ci sono le varie investiture della casa al Castel che a partire dalla più antica, dell’ultimo quarto del secolo XV, citava fra i confinanti vari personaggi della famiglia Mendini. Famiglia che non aveva nessuna relazione con la zona, se non per essere proprietari (o affittuari) della Clesura. Quindi le notizie esposte sopra vanno calibrate in funzione di questo nuovo assunto. I motivi per i quali ritengo esatta questa mia nuova ipotesi a discapito del Ciampet sono anche la superficie troppo esigua (ca. 7000 mq) rispetto al canone di 16 stari che avrebbe richiesto una superficie almeno doppia (e infatti il canone pagato dai Tamè alla metà del Settecento era infinitamente inferiore (3 quarte di frumento e 2 stari di avena) e che la Clesura era nei pressi della casa di Vincenzo che oggettivamente non poteva essere al Castelet, ma appunto nel colomello ai Vicenzi. (A tal proposito, vicino al Vicenzi c’era un altro terreno con parvenze di Clesura, ossia la parte iniziale del Plantadiz) Questo passo indietro, di conseguenza, mi costringe a rivalutare la storia del Ciampet e ascriverla ai possessi Cordini come ipotizzato in un primo tempo. Evidenzio un’incongruenza, ovvero la presenza del notaio Gatta nel 1534 nella zona a monte della casa 20-21, che quindi dovrebbe aver avuto in locazione la Clesura così come anche appariva nel 1545. In tal caso le date sono compatibili con le notizie successive. Invece nel 1561 appaiono fra i confini est della casa 20-21 gli eredi di Antonio Gatta, il che, come data non è compatibile sulle informazioni di entrambe le clesure, dove per quell’anno si ritrova Margherita moglie di Romedio Mendini (clesura piccola) e i Vicenzi (clesura grande). Espongo quindi un’altra ipotesi che ritengo più precisa, ovvero, che la Clesura intorno al 1500 fosse transitata dai Thun ai Gatta di Coredo e quindi ritornata ai Thun nella seconda metà del Cinquecento. Antonio Gatta infatti già nel 1525 aveva possessi a Dermulo, probabilmente riconoscibili nella Clesura. In conclusione credo che, anche se sono abbastanza sicuro che ci si riferisse al terreno che ho individuato, una situazione chiara e precisa sulle Clesure potremmo averla soltanto consultando un relativo documento di locazione presso Castel Bragher. [11] Sembra che i due Cordini fossero stati figli di Bartolomeo, il quale forse, aveva preso in moglie una Vicenzi. Purtroppo mancando riferimenti documentali risulta difficile tracciare una genealogia certa. Considerando l’onomastica e in particolare il nome Baldassarre, che verso la metà del Cinquecento a Dermulo aveva solo due occorrenze, una fra i Vicenzi e l’altra nei Cordini, si potrebbe ipotizzare che il Nicolò II Cordini avesse preso in moglie una figlia di Baldassarre Vicenzi. [12] Qui di seguito le acquisizioni effettuate dalla famiglia Inama di Fondo di cui si è avuto contezza. Nel 1540 un prato al Plantumo da Giovanni fu Leonardo Inama; nel 1563 un terreno a Poz da Salvatore fu Vittore Inama; nel 1571 un altro terreno a Poz da Silvestro fu Vittore Inama; nel 1571 un terreno al Plantum da Caterina vedova di Giovanni Mendini; nel 1594 un prato al Plantum da Giovanni fu Antonio Inama. [13] In realtà la questione non è affatto risolta. La zona sotto Lamport è caratterizzata da una parete strapiombante che termina a livello dell’eremo; anzi in alcuni punti è addirittura rientrante, per cui la rappresentazione in mappa è risultata difficoltosa. Sulla p.f. 268 è rappresentato un simbolo inconsueto che all’ingrandimento della mappa, si è rivelato essere la chiesa e annessa casa dell’eremo. Più a sud invece, con il classico colore rosso, appare una misteriosa costruzione, che risulta difficile spiegare e collocare. Sicuramente non era a Lamport, e se i ruderi dell’eremo erano stati rappresentati come detto poc’anzi, si trattava forse del capitello lì vicino? O forse indicava proprio la chiesa e la casa dell’eremo stesso? [14] Il terreno contraddistinto dalle p.f. 318, 319 e 320, era spesso chiamati “alla Croce di Cambiel” e questa cosa, mi ha fatto sospettare che la croce si issasse, non dove si trova oggi, ma invece, nel luogo di biforcazione della sottostante strada. La croce era stata spostata nel suo luogo attuale dopo la costruzione della strada per il ponte di Santa Giustina? Oppure, esistevano due croci, una denominata “Croce di Cambiel” e l’altra “Croce di Santa Giustina”? Quest’ultima evenienza mi sembra poco probabile per la breve distanza che ci sarebbe stata fra le due. [15] E’ possibile che l’originale localizzazione del toponimo Preda, fosse solamente a valle della strada imperiale e non interessasse quindi le suddette p.f. dal 633 al 635. Ritengo questa un’ipotesi molto verosimile per almeno due motivi: il primo, perché l’area a monte della via imperiale, risultava coperta da bosco fino ai primi anni dell’Ottocento e non da prato; secondo, la zona ricompresa fra la strada imperiale e la via comunale, dal punto di vista toponomastico non era ben definita. Il bosco comunale prima della bonifica, era forse genericamente chiamato Brusadiz, o forse Raut come la zona più a settentrione. Quindi da questa nuova esigenza, di dover individuare in modo più chiaro i vari terreni locati dal comune, si sono originati dei nuovi toponimi, mutuati dalle zone circostanti, quali le Late, Preda, Croce e Due Vie. [16] A volte si riscontra anche la forma plurale, Pinze, o il diminutivo Pinzot (p.f. 363). La parte più a nord vicino al bosco era detta anche Grezo e le p.f. dal n. 363 al n. 365, alle Due Vie sotto la strada. [17] Il trasferimento del terreno a Ciambiel alla chiesa fu una conseguenza del testamento di don Gaspare Inama decano di Fassa, fratello di Maddalena e Margherita, passato da poco a miglior vita. Nel documento di assegnazione non appare la superficie del terreno ma il suo valore, ammontante a ben 233 Ragnesi. Tuttavia, nell’inventario dei beni della chiesa stilato nel 1618, il terreno a Ciambiel è accreditato della superficie di 4,5 stari, non coerente con quanto appena affermato. Nel 1617 la parte a est del terreno risultava proprietà di Gregorio Endrizzi ed era denominata alle Longe. Il campo negli anni successivi fu a poco a poco alienato dai suoi eredi, fino a che, intorno al 1774, tutto il terreno fu prerogativa della chiesa. In vari documenti nel terreno alle Longe è documentata la presenza di una pianta di pero e una di noce. [18] Ipotizzo che il terreno fosse appartenuto a Leonardo Massenza e acquisito da Silvestro Inama II, intorno al 1640. Era infatti abbastanza consueto che un nuovo terreno acquisito, venisse individuato dai nuovi acquirenti con il nome del proprietario precedente. [19] Non escludo che tutti gli appezzamenti di Ciambiel così conformati, fossero riconosciuti come Stregle Longe, e quindi anche la p.f. 369 prima del suo accorpamento. Infatti la denominazione alle Longe, attribuita alla parte a monte, ne sarebbe la prova. [20] La teza era un soppalco di legno costruito su una pianta ad uso del custode boschivo. Da tale manufatto nel territorio di Dermulo si sono originati due toponimi, uno “Teza di Ciambiel”, di cui qui si parla e l’altro “Teza di Somager” entrambi già esistenti nel 1780. [21] Il documento di compravendita del 1665 non è reperibile, ma risulta menzionato in un altro atto successivo. I venditori sono stati individuati per analogia con una vendita coeva di un bosco alle Sort che fu di Maddalena, fatta dai citati Cordini. [22] La strada, lasciato il paese di Coredo poco sotto l’odierno magazzino Melinda, prendeva la direzione nord attraversando la Pousa, per poco dopo ripiegare a sud con un caratteristico percorso infossato fra il bosco. Alle Parisole cambiava decisamente direzione scorrendo a valle fino a congiungersi perpendicolarmente con l’altra strada imperiale per Sanzeno. Attraversata quest’ultima, scorreva quasi parallela al ri dela Mora fino al Blaum. Attualmente sul comune di Coredo il percorso dell’antica strada è stato interrotto in parte dalla costruzione della strada che conduce alla cava della ditta Cementi Tassullo, e dalla cava stessa. [23] Questa porzione nel Cinquecento, verosimilmente era appartenuta a Ercole Inama e poi a Simone Cordini genero di Ercole, ed infine ai suoi discendenti Antonio e don Pietro Cordini. [24] Le proprietà della famiglia Massenza nella zona Sabionare-Gomer erano molto consistenti, la presenza di Vittore proprietario dell’arativo al Gomer, cugino di Caterina e Lucia, ci permette di affermare che in precedenza fossero appartenuti ai padri Giacomo e Leonardo e ancora prima al nonno Simone. Un documento del 1570, ci fa fare un passo ancora più indietro, aggiungendo un altro tassello, in esso infatti si nomina confinante di un terreno al Gomer (nei pressi delle Sabionare), Francesco Massenza, progenitore del suddetto Simone. L’antica prerogativa Massenza è completata dai vari possessi che aveva in zona Concio, pure discendente di Francesco. [25] Nel 1750 fu investito del prato Antonio figlio di Pietro Antonio Mendini, poi il fratello Francesco e quindi i discendenti di quest’ultimo. Il canone annuale ammontava a 11 troni di denaro, due stari di frumento, uno staro di segale e uno staro di legume. [26] Nel 1772 il prato da Domenico, in quanto debitore, passò alla chiesa di Santa Maria di Taio, la quale lo concesse in locazione perpetuale dal 1775 al 1788 a Nicolò Valemi e poi a Romedio Maria Mendini. Il canone annuale era di 12 Ragnesi di cui 6 in denaro contante e 6 in grano terzato. [27] Il prato detto anche Pozzata di Sotto e, più recentemente Ciaseta, nel 1960 fu ceduto alla neo costituita Parrocchia di Dermulo. [28] Il beneficio fu fondato dal sacerdote don Pietro Panizza, figlio del fu Stefano di Taio, il 27 giugno 1718, nello stesso giorno in cui moriva il fratello Giovanni Andrea. Quest’ultimo, ancora in vita, aveva espresso la volontà di fondare un beneficio ecclesiastico e don Pietro, nonostante il fratello non avesse redatto testamento, volle soddisfare la sua intenzione. Al capitale lasciato da Giovanni Andrea, Pietro aggiunse parte del suo patrimonio personale e Giovanna Inama vedova di Giovanni Andrea fece dono della sua controdote, riscossa alla morte del marito. Per volere del fondatore il beneficiato doveva discendere dalla famiglia Inama con la quale era imparentata la sorella Margherita, moglie di Silvestro Inama di Dermulo. Il sacerdote nominato, che doveva risiedere a Taio, avrebbe avuto l'onere di celebrare le messe all'altare della famiglia de Panizza nella chiesa di San Vittore. Il diritto di patronato era riservato in primo luogo al cognato Silvestro Inama, che avrebbe presentato uno dei suoi figli; il diritto sarebbe poi passato, in perpetuo, al più vecchio dei suoi discendenti. Nel caso di estinzione delle famiglie designate alla presentazione del beneficiato, lo “ius praesentandi” sarebbe passato alla comunità di Taio, che avrebbe presentato un sacerdote del luogo o, in mancanza, uno delle ville di Dermulo o di Tres. Fin dalla fondazione questo beneficio fu utile alla popolazione della parrocchia, poiché il beneficiato prestava la sua opera come un terzo cooperatore. In considerazione di tale funzione, con decreto visitale del 26 maggio 1913, il vescovo Celestino Endrici ordinò che il beneficio Pietro Panizza avesse in perpetuo annessa la cura d'anime, da esercitare a richiesta e sotto la direzione del parroco di Taio. In occasione di vacanza il parroco poteva utilizzare le rendite del beneficio per procurarsi un sacerdote per adempiere ad alcune mansioni parrocchiali in determinate occasioni. [29] L’origine medioevale di Pont Aut è ormai inconfutabile e avvalorata da diversi documenti. Prima di essere costruito dove si ritrova oggi, il ponte, dapprima ligneo e poi rinforzato in muratura, era stato gettato sul Noce in luoghi più a monte. Nella realizzazione del ponte si era cercato di sfruttare le iscle presenti nel torrente per ridurne la gettata, ma in caso di alluvioni, la relativa poca altezza dalle acque lo sottoponeva a continue distruzioni e relative ricostruzioni. Pertanto, dopo il 1439 si decise di edificare un ponte che non presentasse più queste problematiche e fu costruito dove lo si può scorgere oggi, quando il livello delle acque del lago lo permettono. [30] Si è scoperta recentemente la ragione del curioso nome “Mula”: deriva dall’antico nome del rio San Romedio che era “Molar” o “Mular” a sua volta derivato dalla zona denominata Mula, sulla montagna di Smarano. (Vedi la Val di Dermulo) Dopo essere stato rinominato San Romedio, l’antico nome cadde nell’oblio e la tradizione popolare ha cercato di spiegare il toponimo, inventando la nota leggenda sulla mula. Alla metà dell’Ottocento con la costruzione della Strada dei Regiai, poco sopra all’antico Ponte della Mula ne fu gettato uno nuovo. Sia il ponte della Mula che il ponte dei Regiai, si trovano sul Comune Catastale di Sanzeno. [31] Su tutti i terreni coltivati gravava il diritto di decima, ovvero ogni dieci parti di prodotti ottenuti che rimanevano al proprietario, una doveva essere corrisposta ai titolari del diritto. Sui terreni di Dermulo tale quota andava per un quarto al pievano di Taio e per tre quarti ai Thun di Castel Bragher. [32] Assieme al campo di Rizzai che in passato era prativo, ce n’erano altri due, uno alle Fontanele e uno alla Ciaseta prerogativa della canonica di Sanzeno. Sicuramente quello alla Ciaseta era appartenuto ai Cordini, tanto da essere appellato anche “Ciamp Cordin”, per cui è plausibile che pure quello alle Fontanele avesse la stessa origine. Intorno al 1660 i familiari di Nicolò V Cordini, irreperibile e da molto tempo assente, per far fronte alla notevole situazione debitoria lasciata in paese, dovettero alienare gran parte del patrimonio. Nel 1662 il terreno a Rizzai era pervenuto in eredità a Maddalena Cordini, sorella di Nicolò, la quale lo rivendeva a Silvestro Inama. Come detto, poi almeno dal 1671, circa un quarto del terreno transitò alla canonica di Sanzeno, la quale mediante il parroco investiva perpetuamente Silvestro Inama II e in seguito i suoi discendenti. Dai documenti, (tra l’altro quello del 1671 non è reperibile) non traspare il motivo di questo passaggio. Se si facesse un parallelo con altre operazioni simili, si potrebbe affermare che Silvestro avesse avuto un debito con la canonica e che quindi le avesse trasferito una parte di terreno a Rizzai e il campo Cordin. Di contro la canonica aveva investito il debitore dei terreni, assicurandosi una rendita annua perpetua. Quella accennata potrebbe essere una spiegazione plausibile, rimane però il dubbio, che invece l’operazione fosse collegata ai problemi della famiglia Cordini. [33] Sulla mappa del 1860 in corrispondenza dell’incrocio fra la strada che scende da Coredo dalle Parisole in località Gomer e la strada delle Plazze che una volta portava a Revò, si nota un segno che ha tutta l’aria di essere una così detta “Wegtafel”, cioè un cartello di indicazione stradale. Infatti ho trovato notizia che nel 1865 era stato messo un cippo con le seguenti diciture: “Via per Revò dei Regai- Via per Cles”. [34] Di questi passaggi tra Giacomo Antonio Inama, la chiesa e Bartolomeo Mendini, non esiste prova documentale, ma il dato di fatto che nel 1758, Bartolomeo risultava livellario della primissaria. [35] Nel 1722 in una porzione del terreno risulta che fossero state messe a dimora diversi filari di viti (“un’arativa con 4 piantate di resi”, così pure nel 1747 “un’arativa con 3 piantate di resi”). [36] Il maso è identificabile con il Maso dei Casali, citato la prima volta nel 1275 e del quale sono noti diversi locatari a partire dal XV secolo. Le locazioni, dette investiture perpetuali, avevano una durata lunghissima ed erano rinnovate ogni 29, oppure ogni 19 anni e solitamente il contratto si tramandava di generazione in generazione all’interno della stessa famiglia, ma non solo. [37] Da un documento del 1357 sembrerebbe che in tale periodo, della parte nord fosse locatario Michele Thun di Castel Bragher e che a sua volta l’avesse sublocato a Nicolò fu Delaito di Dermulo. A sud invece, appariva possessore il notaio Vender figlio del fu Negro detto Segalla. [38] Nelle registrazione gafforiali nel 1510 veniva menzionato un terreno in Tores-c. Nelle successive registrazioni, a partire dal 1585 i terreni diventano due: uno detto i Tores-c e l’altro a Toresco, descritti rispettivamente di tre e due stregle, però con gli stessi riferimenti confinari. Questa cosa ci fa sorgere qualche domanda sulla correttezza di tali investiture che però, comunque, riportano la stessa situazione fino all’ultima, relativa al 1696. Circa nel 1740 Giovanni Giacomo Inama, persona che in quel periodo deteneva l’investitura sul terreno, otteneva l’autorizzazione dal massaro vescovile, di spostare l’onere gafforiale su un suo terreno a Cianvecel. Di questa operazione non ho trovato il documento probatorio, ma il dato di fatto, supportato da alcuni indizi, primo fra tutti la comparsa nelle investiture del nuovo terreno a Campovecchio soggiacente al medesimo onere di quello a Tores-c, ovvero di un moggio di avena. Altro indizio è l’autorizzazione richiesta nel 1737 da Giovanni Giacomo Inama, ma non concessa dal massaro Giuliani, di sostituire un fondo gafforiale con un altro. Benchè nel documento non si facesse accenno ai terreni interessati, la situazione degli anni successivi, dimostra che si fosse trattato del terreno a Campovecchio in sostituzione di quello a Tores-c. A proposito di quest’ultimo toponimo, credo che possiamo decretarne la scomparsa con il trasferimento dell’onere gafforiale a Campovecchio. [39] Nell’archivio del santuario di San Romedio, purtroppo, non esiste traccia della prima investitura del terreno. Sono reperibili invece, i documenti (già riscontrati in altro luogo) di alcune investiture successive. [40] La superficie del terreno, che comprendeva anche la parte nord delle p.f. 874-875, mi sembra un po’ eccessiva, e mi viene il sospetto che fosse stata gonfiata per aumentare il valore del patrimonio assegnato a don Giovanni Antonio Emer. Da altre misurazioni qualche anno dopo, risulta una superficie di 12 stari. |
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