LA CASA N° 25 - Casa nova dei Cordini - Casa del maso Betta - Casa del maso Widmann

(Oggi Via Strada Romana n. 10) P.E. 23
 


           IL MASO

 

 

La futura casa n. 25 era una delle case che la famiglia Cordini possedeva a Dermulo, e precisamente quella più di “recente” costruzione, essendo nominata come “Casa nova dei Cordini” già alla metà del Cinquecento. La casa potrebbe essere stata edificata nei primi anni del Cinquecento e potremmo riconoscere nel committente Pietro Cordini figlio del fu Delaito e nel costruttore, il "magistro" Cordino fu Gaspare Cordini che negli anni Venti del Cinquecento viveva a Dermulo. Pietro inizialmente abitava nella futura casa n. 24 assieme al fratello Giacomo e si trasferì nella nuova casa presumibilmente dopo il matrimonio con tale Lucia. La casa 25 aveva un aspetto maestoso con una superficie superiore ai 300 metri quadrati, molto più ampia quindi, rispetto alla natale casa 24. La sua conformazione interna non è mai apparsa in nessun documento, pertanto più sotto espongo quanto riferitomi da Alessandro Emer che ne fu proprietario fino agli anni Ottanta del Novecento.
Dopo di se, Pietro Cordini lasciò due figlie di nome Barbara e Anna e quest’ultima in seguito abitò nella casa con il marito Antonio Pangrazzi di Campodenno. Dal matrimonio non nacquero figli e già nel 1558, Anna, rimanendo vedova, si risposò con Domenico Tedeschi figlio di Giacomo, capitano a Castel Valer. La sorella Barbara che era maritata fuori Dermulo, per quanto riguarda l’eredità del padre Pietro era stata tacitata con la somma di 300 Ragnesi oltre alla dote, per cui i beni che furono di Pietro pervennero ad Anna. Pietro Cordini nel suo testamento aveva però disposto che al nipote
Martino Cordini dovesse essere corrisposta la somma di 400 Ragnesi, per cui nel 1554, Antonio Pangrazzi a nome della moglie Anna, cedeva a Martino diversi beni per tale valore, ossia la metà della casa detta “la casa nova dei Cordini” (ovvero la casa di cui stiamo parlando) del valore di 300 Ragnesi, e metà del prato a Rizagn, metà della stregliva in Piano, metà della stregliva a Somager, metà di un campo a Santa Giustina per il valore dei rimanenti 100 Ragnesi. Nel 1554 Anna si vide costretta ad acquisire una casa di abitazione da Giacoma vedova di Vittore Inama perché, come lei stessa affermò, ne era in quel momento priva. Questo ci fa capire che la sua vecchia casa non era per qualche motivo abitabile. Anche se non si può del tutto escludere, non credo che la non fruibilità dipendesse dallo stato strutturale dell’edificio, che potrebbe forse essere stato danneggiato da qualche incendio o collassato per la neve, ma invece dal fatto che fosse stato venduto. In questo caso però la vendita non sarebbe stata dettata da una situazione debitoria. La logica vuole che il cugino Martino, già in possesso di metà casa, avesse acquisito da Anna la rimanente parte. In ogni caso, le evidenze successive ci dicono che la casa e tutti i beni che furono di Anna, transitarono a Pantaleone Betta di Castel Malgolo ed assunsero da quel momento la caratteristica di “maso”. Infatti la consistenza degli stabili che lo componevano rimase quasi inalterata fino alla metà del XX secolo per cui se da una parte ciò ci ha permesso di seguire con sicurezza la storia dei vari terreni, dall’altra, ci ha privato, in particolare per la casa, di avere descrizioni dettagliate che solitamente venivano date in occasione di compravendite o divisioni.

 

DESCRIZIONE DELLA CASA ALLA META' DEL XX SECOLO

 

La casa subì una prima ristrutturazione dopo l'acquisizione da parte dei Widmann, di cui è rimasta traccia sulla chiave di volta dell'arco che riporta l'anno 1818 e lo stemma dei Widmann e su una trave del tetto (asnόn) che riportava la scritta "don Romedio Widmann". E' forse da attribuire al coredano anche il tamponamento delle due aperture presenti al piano terra del lato sud, che davano accesso ad un grande portico da cui si accedeva poi agli altri locali. Anche la meridiana campeggiante sul lato sud potrebbe essere stata commissionata da don Romedio. Le appena accennate evidenze si ricavano dall'osservazione di alcune foto d'epoca. Prima dell'ultima ristrutturazione eseguita negli anni '90 del Novecento dai fratelli Eccher, l’arco di pietra, ora sulla parete sud, era invece posto sulla parete est, costituendo l'entrata principale della casa attraverso il somasso. Al portone principale portava  anche la stradina che scendeva tra la casa Emer e il caseificio.

 

PIANO TERRA

Al piano terra la casa era costituita da un grande portico a sud-est, dalla cantina ad est, un locale destinato a raccogliere il fieno gettato dal sotto tetto, e da quattro stalle che erano così identificate: stalla dei muli, stalla delle vacche, stalla delle manze, stalla dei buoi o dei manzi. Probabilmente qualcuna delle stalle era di origine relativamente recente e se si pensa che la casa era stata sicuramente costruita predisponendo l'alloggiamento di almeno due famiglie, ci doveva essere un'altra cantina e un altro avvolto destinato ad altri usi. Quindi originariamente suppongo che le stalle non fossero state più di due. A sinistra della porta del portico una scala di legno portava al secondo piano. Nello spazio sotto il terrazzo, inizialmente dedicato a concimaia, trovava posto una legnaia e un lavatoio in direzione parallela all'odierna Strada Romana. Sulla parete ovest esisteva ed esiste tutt'ora una porta che dalla Strada Romana permetteva l'accesso alla stalla delle manze. Quest'ultima presentava una mangiatoia costruita in legno al pari della stalla dei muli, invece nella stalla delle vacche e in quella dei buoi, la mangiatoia era in muratura. Non erano presenti finestre sul lato est perchè i locali erano interrati, mentre ce n'erano due su ciascuno lato a sud e a nord. Su quest'ultimo appariva la sagoma del "cesso a caduta".

 

                                                                                                                                  PIANO TERRA
CASA 25 PIANO TERRA

 

PRIMO PIANO

Al primo piano si poteva accedere dal portone posto sul lato est, oppure dalla scala esterna in legno addossata parallelamente al lato sud. Originariamente, si poteva guadagnare il primo piano anche attraverso una scala di pietra interna, di cui si trovava traccia nell’angolo sud-ovest del somasso e che molto probabilmente fu rimossa durante la ristrutturazione Widmann intorno al 1818 e sostituita con quella di legno esterna. Quest’ultima principiava a sinistra della porta del portico e in direzione est-ovest portava al poggiolo posto al primo piano. Da qui poi, entrando in un corridoio, si accedeva sulla destra alla stua, sulla sinistra alla cucina e proseguendo dritto, al somasso. Il poggiolo più tardi fu ampliato fino ad ottenere un soppalco a uso terrazzo, al quale fu sovrapposta una tettoia.
Il piano era occupato per circa metà superficie dal somasso e “gorgòz” e per il rimanente da vari locali abitativi. Entrando sul somasso dal portone principale, partendo da sinistra, una porta dava accesso ad un ripostiglio, un’altra al corridoio dell’appartamento, e altre due porte immettevano in altrettante stanze poste a nord-ovest della casa. L’unica porta presente sulla parete nord permetteva di raggiungere il cesso a caduta. In fondo al somasso, addossata alla parete ovest, una scala saliva al secondo piano.
Dalla numerosità dei locali e dall’ampiezza del piano si intuisce che, pur essendo abitata da una sola famiglia, la casa fosse stata concepita per accoglierne almeno due.
L’appartamento utilizzato ai tempi in cui erano proprietari Guido e Brunone Emer era costituto da un corridoio (sala), a cui si poteva accedere sia dal somasso che dalla scala sul lato sud, il quale dava accesso alla cucina oppure alla stua. Dalla cucina una porta metteva alla dispensa. Dalla stua, fornita di fornello a ole, si accedeva ad una stanza e da questa ad un’altra che però non era utilizzata. Sullo stesso piano trovavano posto quindi altre due stanze non usufruite e con l’entrata esclusiva dal somasso. Una era posta all’angolo nord-ovest ed essendo dotata di camino si può ipotizzare fosse stata adibita in precedenza a cucina; l’altra all’angolo sud-est presentava nei muri delle nicchie per riporre materiali ed era destinata a ripostiglio o laboratorio.

 

PRIMO PIANO
CASA 25 PRIMO PIANO

 

 

SECONDO PIANO

Al secondo piano, occupato per la maggior parte dal fienile, si accedeva dalla scala posta in fondo al somasso. Oltre al fienile c’erano altri due locali posti a sud-est, in uno dei quali era stato ricavato un affumicatoio. Nel pavimento esisteva l’apertura dalla quale veniva fatto scendere il fieno che attraversando tutta la casa arrivava fino al piano terra. La parte di pavimento sopra il somasso era costruito in travature di legno coperte con un tavolato d’assi, mentre il restante in “malta-paia”. In corrispondenza del portone principale, un’apertura permetteva di far passare agevolmente le merci da depositare sul piano. Una scala infine, portava al sotto tetto vero e proprio.

 

SECONDO PIANO
CASA 25 SECONDO PIANO

 


Come sopra accennato, il passaggio ai Betta avvenne negli anni successivi al 1554, e nella trattativa per l'acquisto è probabile che ci fosse stata la mediazione del notaio
Antonio fu Gaspare Inama, che all'epoca intratteneva rapporti lavorativi con la famiglia di Malgolo. Se volessimo essere più precisi, potremmo collocare la probabile data di acquisizione poco prima del 1569. E’ di quest’ultimo anno, infatti, un contratto di locazione stipulato fra Pantaleone, capostipite della linea Betta di Malgolo, e i fratelli Martino e Gervasio Cordini di Dermulo di cui ci da notizia Quintilio Perini.[1] Questa informazione ci autorizza a pensare che Pantaleone Betta avesse acquisito il futuro maso da Martino Cordini e poi glielo avesse riconcesso in affitto.[2]
I Betta, ad eccezione di un periodo dal 1769 al 1777, non dimorarono mai in detta casa che invece fu occupata dai vari manènti. Dopo i fratelli
Cordini, nell'ultimo decennio del Cinquecento troviamo manente del maso Domenico Massenza di Dermulo. Nel 1628 abitava la casa del maso Giorgio Bonvicin di Salter, genero di Domenico Massenza, che vi rimarrà sicuramente fino al 1637.[3] Il manente successivo sembra essere Andrea Pellegrini dalla Pieve di Sanzeno dal 1640 al 1644, poi Concio Massenza documentato nel 1657, (ma forse già presente dal 1650); dal 1659 al 1669 Silvestro Inama, quindi suo figlio Giacomo Inama nel 1671, che forse vi rimase per dieci anni.

Nel 1710 la casa del maso risulta disabitata in quanto probabilmente l'affittuario, (Giovanni Battista Inama?), lavorava i terreni di pertinenza, ma viveva nella propria casa; invece sicuramente nel 1716 Giovanni Battista risiedeva nella casa dove rimase fino al 1747.

Nel 1767 e nel 1768 troviamo i figli di Giovanni Battista Inama: Giovanni e Antonio; quindi Giovanni Emer dal 1778 al 1787.

Nel 1792 il maso risultava locato, forse già da qualche anno, ad Antonio Melchiori del quale però i padroni non erano soddisfatti. Si disse che il Melchiori era privo di bovi per poter espletare i lavori ed inoltre era pure incapace di svolgere il lavoro con cura. Per tale motivo Antonio fu obbligato a rinunciare alla locazione dovendo pure risarcire i danni provocati al maso per la cattiva conduzione. Giovanni Mendini e Giovanni Francesco Inama furono eletti rispettivamene dalla parte Betta e dalla parte Melchiori, quali periti deputati a stimare il danno che fu stabilito in 48 Ragnesi. L’importo dovrebbe essere stato devoluto in prodotti raccolti nel maso. In quel periodo il maso e quindi la casa appartenevano agli eredi di Francesco Betta ossia alla vedova Paolina Benedetti e alle figlie Teresa e Angelica. Di li a breve la famiglia Gentili sarebbe entrata in possesso del maso con Maria e Gertrude Gentili figlie di Giovanni Michele di Sanzeno e di Paolina vedova Betta, sposata in seconde nozze. Intanto al Mechiori subentrò Giacomo Endrizzi che abitò la casa del maso da circa il 1797 fino al 1804.
Nel 1815 Maria e Gertrude figlie del fu Giovanni Michele Gentili con l’autorizzazione di Teresa loro zia, vendettero per la somma di 2700 Fiorini il maso a Dermulo a don Romedio Eligio Widmann di Coredo, figlio di Alfonso e della stessa Gertrude Gentili, che ne istituirà una fondazione stipendiaria.[4] I nuovi proprietari eseguirono dei lavori di ristrutturazione della casa dei quali rimane ancora oggi traccia sulla chiave dell'arco dove si può notare una decorazione a fiore e la data 1818. Forse fu dipinta in tale periodo anche la meridiana che una volta campeggiava sulla parete sud della casa. Don Romedio morì nel 1836 e nel testamento dispose l’istituzione di una fondazione stipendiaria di cui avrebbe potuto beneficiare un aspirante sacerdote della famiglia. Tale fondazione fu istituita nel 1841 patrocinata da Alfonso Luigi Widmann, nipote di don Romedio, legando allo scopo i beni di Dermulo.

Anche i Widmann come i loro predecessori per coltivare i campi e mantenere la casa, si a avvalsero di manènti dei quali il primo di cui si ha notizia fu Vittore Tamè figlio di Giovanni Maria, che abiterà con la sua famiglia nel maso a partire dal 1830, e vi rimase sicuramente fino al 1855. Dal 1840xxx abitava nella casa del maso il genero di Vittore, Baldassarre Inama, poi seguito dal figlio Agostino documentato almeno fino al 1899. Nel 1907 la casa risulta occupata da Ernesto Inama fu Giovanni e nel 1916 suo figlio Giuseppe. Più tardi troveremo Riccardo Eccher ed infine Alessandro Manzoni ultimo manènte dei Widmann. Nel 1945 il Manzoni aveva stipulato un contratto di affitto con i baroni Widmann della durata di tre anni, che alla scadenza non venne prorogato per cui l’affittuario fu invitato a lasciare il maso. Nel 1943 intanto la fondazione veniva estinta e i beni transitarono ai fratelli Egberto, Enrico, Alfonso e Ermanno  figli di Alfonso Luigi Widmann.[5] Nel 1945 il barone Enrico Widmann, anche a nome dei fratelli e dei nipoti, cedeva a Vigilio Tamè e a Ferdinando Pinamonti, le sue proprietà a Dermulo. Il maso dopo aver mantenuto la sua integrità per secoli, si accingeva quindi ad essere smembrato per cui alcuni beni passarono a Leo Chistè, Augusto Zinzarella e ai fratelli Guido e Bruno Emer. Questi ultimi, in particolare, comprarono e abitarono la casa fino al 1970, dopo di che si trasferirono a Taio.
Per venti anni la casa rimase disabitata e negli anni Novanta divenne proprietà dei fratelli Eccher che la sottoposero ad una importante ristrutturazione.

 

 

  

PERSONE EFFETTIVAMENTE PRESENTI NELLA CASA *
Anno 1554

Anno 1620

Anno 1670

Anno 1710

Anno 1780

Anno 1830

Anno 1880

Anno 1921

Antonio Pangrazzi

Giorgio Bonvicin

Silvestro Inama

disabitata

Giovanni Emer

Vittore Tamè

Baldassarre Inama

Serafina Bergamo (v)

Anna Cordini (m)

Caterina Massenza (m)

Barbara Bonadiman (m)

 

Barbara Zadra (m)

Teresa Inama (m)

Domenica Tamè (m)

Giuseppe Inama (f)

   

Giacomo Inama (f)

 

Teresa Emer (f)

Domenica Tamè (f)

Eugenia Inama (f)

Paolina Inama (f)?

   

Giovanni Inama (f)

 

 

Elisabetta Tamè (f)

Filippo Inama (f)

Anna Inama (f)

   

 Caterina Inama (f)

 

 

Matilde Tamè (f)

 

Maria Inama (f)

   

 

 

 

Filippo Tamè (f)

Faustino Agostino Inama

Emma Inama (f) (a)

   

 

 

 

Rosa Tamè (f)

Emilia Inama (m)

Abramo Inama (f) (a)

   

 

 

 

Giovanni Tamè (f)

Elena Inama (f)

 

   

 

 

 

 

Ludovico Inama (f)

 

   

 

 

 

 

Maria Inama (f)

 

     

 

 

 

 

 

* Per gli anni 1554, 1620 e 1670 le persone non sono quelle effettivamente presenti ma solo quelle di cui si è avuta contezza. Il nominativo sottolineato corrisponde al capofamiglia. Le seguenti abbreviazioni indicano i rapporti di parentela con il nome sottolineato: m sta per moglie, f. per figlio/a, fr per fratello, S per sorella, v per vedovo/a, p per padre, M per madre, s per suocero/a, n per nipote, z per zio, N per nuora e c per cognato/a. Per il 1780, i nomi dei proprietari provengono dal Catasto teresiano  presso l’A.S.T. Per il 1921 si è preso in considerazione il censimento di tale anno presso l’A.C.D.  Inoltre, e solo per questo anno, sono state evidenziate le persone assenti con la lettera a. Per gli anni rimanenti i nomi dei capifamiglia e/o il numero degli occupanti la casa, sono stati desunti da vari documenti consultati presso A.C.D., A.P.T. e A.D.T.

 

 

[1] Cfr. Quintilio Perini - “Le famiglie nobili trentine. La famiglia Betta di Arco, Revò e Castel Malgolo” in Atti dell’ i.r. Accademia di scienze, lettere e arti degli Agiati in Rovereto, S.3, vol 9, fasc. 3/4 (1903), pag. 223.
[2] Nei documenti di investitura del maso di Castel Valer fra i vari terreni locati, ne figurava anche uno nella località a Poz, che nelle investiture successive al 1581 risultava confinare a ovest con i Betta. Tali documenti di investitura hanno la caratteristica di elencare sempre i medesimi beni, aggiornandone i locatari e le confinazioni. Per tale motivo, analizzando ad esempio le investiture relative al 1534 e al 1561, ho rilevato che il confine ovest più tardi figurante Betta, era stato assegnato ad Antonio Inama. Dopo vari raffronti ho stabilito che l’Antonio in questione (fra i diversi omonimi compatibili) fosse stato quello soprannominato “del Marin”, per cui fra le varie ipotesi di transazione tra i Cordini e i Betta, si potrebbe tenere in considerazione anche un passaggio intermedio ad Antonio Inama “del Marin”. Questa particolarità è quindi trasferibile a tutti i beni del maso, compresa la casa, salvo che il prato a Poz non fosse stato acquisito dai Betta in tempi successivi agli altri beni del maso.
[3] Non è escluso che nel 1636 il maso fosse tenuto da Michele fu Antonio Sborzi (Schwarz) di Smarano, marito di Cristina Massenza.
[4] Don Romedio Widmann nacque a Coredo nel 1758 dove fu Cappellano dal 1783 al 1795. Fu poi beneficiato in Castel Bragher e morì nel 1836. (Cfr. Endrici Edoardo “Coredo nell’Anaunia” Pagg. 190 e 197.)
[5]
In realtà Ermanno era già morto e in sua vece subentrò il figlio omonimo Ermanno.

 

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