La così detta Carta de Hermulo risalente al 1218 e la sua riconferma scritta due anni dopo, rappresentano i due più antichi documenti che fanno riferimento al nostro paese con una certa importanza di notizie. Si tratta di un conferimento di privilegio agli abitanti di Dermulo che vennero liberati dalla condizione servile nei confronti dei signori di Denno per l’omicidio perpetrato da quest'ultimi del conte Federico di Appiano. I dermulani furono quindi dichiarati dal vescovo Feredico Vanga, servi della chiesa. Il documento del 1218, essendo una trascrizione, è meno affidabile per quanto riguarda i nomi se confrontato con quello del 1220. Credo che nella trascrizione il notaio Oberto da Piacenza abbia letto Hermulo anzichè Armulo. Sicuramente la forma Hermulo fece la sua comparsa molto più tardi. Anche nel caso dei citati figli di Clemente, cioè Giovanni e Richello, in realtà sembra trattarsi di un'unica persona: Giovanni Richello figlio del fu Clemente. Nel'ultimo documento poi sono stati aggiunte altre tre persone che non comparivano nel primo: Giorgio figlio di Adelpreto, Bono figlio di Forzolino e Ventura figlio di Giovannino.
LA CARTA DE HERMULO
L' immagine del documento è stata tratta da "I cartulari della Chiesa trentina (secoli XIII e XIV) di Emanuele Curzel e Gian Maria Varanini Tomo I e Tomo II "
TRASCRIZIONE DELLA CARTA DE HERMULO |
TRADUZIONE DELLA CARTA DE HERMULO[1] |
1. In Christi nomine. Die dominico undecimo exeunte
mense februarii. In civitate Tridenti, in camera domini episcopi. In
presentia dominorum |
Nel nome di Cristo, domenica 18 febbraio. Nella città
di Trento, nella stanza del vescovo. In presenza dei domini Enrico
giudice e Enrico de Crompahbo, Federico preposito di Pruchenbergo,
Enrico di Breguzzo, Wischerio filio di Albertone e altri testi. Essendo
in discussione cosa fosse da farsi del feudo costituito dai sottocitati
uomini di Dermulo, il quale era pervenuto dai figli del fu domino
Oluradino di Denno, a causa dell’omicidio del conte Federico di Appiano,
nella disponibilità del domino Federico vescovo della chiesa trentina e
legato in Italia dell’aula regia e quindi in base al lodo della curia
suscettibile di nuova investitura, il detto vescovo Federico, ispirato
da dio onnipotente, da san Vigilio e i suoi martiri e tutti gli
apostoli, per sé e i suoi successori in perpetuo diede e concesse il
seguente privilegio a tutti i sottocitati uomini di Dermulo e cioè:
Adamo fu Odorico e Giovanni fu Alberto, presenti e riceventi per se e
per Simeone figlio di Martinazzo e Ottone suo fratello e Domenico fu
Francolino e Bonomo fu Giovanni di contrada e Alberto fu Viviano, e
Giordano suo fratello e Giacomino fratello di loro e Zanolino fratello
del detto Simeone, e Giovanni fratello di Adamo e Graziadeo fratello di
costoro e Vivencio fu Zanucello e Viviano fu Martino di Solado e Odorico
figlio di Adelpreto e Levesella figlia di Aitengo e Giovanni e Richello
fu Clemente e Forcio Strambo; (il privilegio consiste) che tutti i
sopraddetti e i loro eredi e gli eredi dei loro eredi e i proeredi da
qui in avanti debbano essere e rimanere per sempre a servizio e in
possesso della chiesa di san Vigilio e dei suoi vescovi con tutti i loro
beni; e ciò per sempre in modo che nessun vescovo possa né debba in
alcun modo vendere quegli uomini né alcuno dei loro eredi con qualsiasi
sotterfugio, ma sempre rimanere in possesso del vescovo prima nominato e
dei suoi successori con tutti gli obblighi, condizioni, fitti e servizii
che in base alla legge erano soliti pagare fin dall’antichità ai loro
padroni, e che non possano mai più essere oggetto di investitura; e se
qualche vescovo proverà a contravvenire o contravverrà a questa
disposizione essa sia nulla e non durevole e sia colpito da anatema; ma
questi uomini e i loro eredi, come è scritto, permangano nella
disponibilità dell’altare di San Vigilio senza essere venduti con quegli
obblighi, condizioni, fitti e servizi da rendere e pagare al vescovo e
ai suoi successori e rappresentanti, come erano soliti pagare e rendere
in base alla legge. Questo è stato fatto nell’anno del signore 1218
indizione sesta. Io Ribaldo, notaio del sacro palazzo, fui presente e
pregato scrissi. Nell’anno del signore 1227, indizione quindicesima, il
giorno mercoledi 18 agosto, nel palazzo episcopale di Trento alla
presenza dei domini Giacomo, Trentino, ed Ezzellino giudice e altri
testimoni. Il domino Gerardo per grazia di Dio vescovo di Trento ordinò
a me Oberto sottoscritto notaio del sacro palazzo di rilevare questo
atto dal suo originale e una volta rilevato di pubblicarlo ed
autenticarlo e redigerlo in pubblica forma. Io Oberto di Piacenza,
notaio del sacro palazzo, scrissi copia del detto atto autentico scritto
dal notaio Ribaldo e comandato dal detto domino vescovo pubblicai, e
autenticai e ridussi in pubblica forma. |
LA RICONFERMA DELLA CARTA
L' immagine del documento è stata tratta da "I cartulari della Chiesa trentina (secoli XIII e XIV) di Emanuele Curzel e Gian Maria Varanini Tomo I e Tomo II "
TRASCRIZIONE DELLA RICONFERMA DELLA CARTA DE HERMULO NEL 1220 |
TRADUZIONE DELLA RICONFERMA DELLA CARTA DE HERMULO NEL 1220 |
Anno dni dei eterni mill. CCXX., indic. VIII., V. idus septembris. In civitate Tridenti, in capella sancti Johannis. In presencia: dni Petri de Malusco, Ananie vicedomini, Henrici de la Bella, tridentine curie judicis, Montenarii et Gunselmi germanom de Tridento, Warimberti de Romeno, et aliorum testium vocatorum. Dns Albertus, d. g. tridentine ecclesie electus, confirmavit et cum suis successoribus perpetuo ratum et inviolatum conservare promisit Privilegium traditum et concessum hominibus de Armulo per dnm Fedricum predecessorem suum, quondam sancte ecclesie venerabilem episcopum, quemadmodum in quodam publico instrumento Ribaldi notarii ibidem ostenso apparebat, videlicet quod prescripti homines divine bonitatis intuitu cum suis heredibus et universis eorum possessionibus ad manus episcopatus et in tenuta casedei et ad servicium episcopi, qui pro tempore fuerit, permanere debeant in perpetuum, ita quod nulli episcopo pro futuris temporibus liceat, eos vel eorum heredes aut quiequam de illis redditibus, fictis, serviciis seu condiciis, que ipsi reddunt episcopatui, in parte vel toto infeodare vel alio quovis modo extra casamdei alienare. Si vero aliquis episcopus contra hoc agere tentaverit, nihil valeat; et qui contra venerit, sit anathema; et semper illi homines et eorum heredes, ut supra scriptum est, supra altare sancti Vigilii sine ulla alienacione permaneant cum illis racionibus, condiciis, fictis et serviciis de cetero dandis, solvendis et faciendis prefato dno episcopo suisque successoribus et eorum nunciis, que solvere et facere de jure consueverunt. Homines autem , quibus fuit concessum istud privilegium, sunt hi: Symeon, Otto et Johanolus germani, Dominicus et Bonus, filii Forzolini, Bonomus, filius Johannis de contrata, Albertus, Jordanus et Jacobinus germani, Adam, Johannes et Gerardus item germani, Vivancius et Ventura filii Johannucli. Vivianus filius Martini de Selado, Odulricus, Johannes et Georgius germani, Levesella filia Attingi, Johannes Rikellus, filius Clementis. Fortius Strambo. Ego Ropretus, imperatoris invictissimi Friderici notarius, interfui, et jussu prefati dni electi hanc confirmacionem scripsi. |
Anno del signore sempiterno 1220 indizione VIII 19 settembre. A Trento, nella cappella di san Giovanni. In presenza del domino Pietro di Malosco Vicedomino d’Anaunia, Enrico de la bela giudice della curia trentina, Montenario e Gunselmo fratelli germani di Trento, Warimberto di Romeno e altri. Il domino Alberto, per grazia di dio eletto vescovo della chiesa trentina confermava e promise per se e successori di mantenere fede al Privilegio dato e concesso agli uomini di Dermulo dal domino Federico suo predecessore defunto venerabile vescovo della santa chiesa nello stesso modo in cui appare nel pubblico documento del notaio Ribaldo qui aperto e cioè che i citati uomini, per ispirazione della bontà divina, con i loro eredi e tutti i loro possessi debbano rimanere di proprietà del vescovo pro tempore e della casadei e al loro servizio in perpetuo, in modo tale che a nessun vescovo in futuro sia permesso in tutto o in parte concedere in feudo o vendere al di fuori dalla casadei loro o i loro eredi o qualsiasi di quei redditi, fitti, servizi o obblighi che gli stessi rendono all’episcopato E se qualche vescovo oserà tanto ciò sia nullo; e se contravverrà sia colpito da anatema; e sempre quegli uomini e i loro eredi rimangano di proprietà dell’altare di San Vigilio, come sopra scritto, senza che siano in alcun modo oggetto di alienazione con quegli obblighi, condizioni, fitti e servizi che sono consueti rendere e pagare al vescovo. Questi sono gli uomini ai quali fu concesso questo privilegio: Simeone, Otto e Giovannino fratelli germani, Domenico e Bono figli di Forzolino, Bonomo figlio di Giovanni di contrada, Alberto, Giordano e Giacobino fratelli germani, Adamo, Giovanni e Gerardo anche loro fratelli germani, Vivancio e Ventura figli di Giovannino. Viviano figlio di Martino di Selado, Odorico, Giovanni e Giorgio fratelli germani, Levesella filia di Attingo, Giovanni Richello figlio di Clemente, Forte Strambo. Io Ropreto, notaio dell’invitto imperatore Federico, fui presente e per ordine del predetto domino eletto scrissi questa conferma.
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CONFRONTO FRA I NOMINATIVI RIPORTATI NEI DUE DOCUMENTI
NOMI RIPORTATI NEL 1218 | NOMI RIPORTATI NEL 1220 |
Adamo fu Odolrico |
Adamo (figlio di Odolrico) |
Giovanni fu Alberto |
Giovanni (figlio di Adelpreto) |
Simeone figlio di Martinacio |
Simeone (figlio di Martinazzo) |
Ottone figlio di Martinacio |
Otto (figlio di Martinazzo) |
Domenico figlio di Francolino |
Domenico (figlio di Forzolino) |
Bonomo fu Giovanni de contrata |
Bonomo (figlio di Giovanni de contrata |
Alberto fu Viviano |
Alberto (figlio di Viviano) |
Ordano e suo fratello |
Giordano (figlio di Viviano) |
Giacobino loro fratello |
Giacobino (figlio di Viviano) |
Zanolino fratello di Simeone |
Giovannino (figlio di Martinazzo) |
Giovanni fratello di Adamo |
Giovanni (figlio di Odolrico) |
Graziadeo loro fratello |
Gerardo (figlio di Odolrico) |
Vivencio fu Zanucelo |
Vivancio (figlio di Giovannino) |
Viviano fu Martino de Solado |
Viviano figlio di Martini de Selado |
Odorico figlio di Adalpreto |
Odolrico (figlio di Adelpreto) |
Levesella figlia di Aytengo |
Levesella (figlia di Attingo) |
Giovanni fu Clemente |
Giovanni Richello (figlio di Clemente) |
Forcio Strambo |
Forte Strambo |
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Giorgio (figlio di Adelpreto) |
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Bono (figlio di Forzolino) |
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Ventura (figlio di Giovannino) |
CAPIFAMIGLIA ALLA FINE DEL XII SECOLO
Clemente Martino de Solado Zanuclo Viviano Odolrico Martinaccio Forzolino Giovanni de Contrata Alberto Adalpreto Aytengo Forcio Strambo
CONSIDERAZIONI STORICHE RIGUARDANTI DERMULO NEL XII SECOLO
di Paolo Odorizzi
La condizione servile, se non di tutta, di quasi tutta la popolazione, circa novanta-cento individui come calcolato correttamente da Paolo Inama, è documentata nei due atti del 1218 e 1220 contenuti nel Codice Wanghiano che vale la pena riassumere con l’avvertenza di leggere con attenzione le note man mano che si trovano perché la ricostruzione storica degli eventi è del tutto diversa da quella propalata dall’Ausserer e soprattutto da Vigilio Inama il che, oltre a ciò, inficia la prima parte del suo capitolo V, Le Valli nel XIII secolo, contenuto nella Storia delle Valli di Non e Sole. Fino dai tempi antichi gli uomini che abitavano a Dermulo erano servi-schiavi (cfr. documento 141 trascritto e tradotto qui sopra); questa condizione permaneva ancora nel 1217 quando i de Denno ne erano i padroni. E’ lecito presumere che questi servi-schiavi lavorassero quelle terre che, parrebbe, la chiesa trentina aveva assegnato agli stessi domini de Denno in feudo[2]. Nel 1217 i fratelli Giacomo, Ottolino e Ropreto figli di Oluradino de Denno assassinarono il conte Federico d’Appiano e furono quindi puniti dal vescovo Federico Wanga. Le fonti documentali non sono del tutto chiare sulla punizione comminata e sull’esito. L’Ausserer sostiene tout court che “dovettero ritornare al vescovo tutti i loro allodi per riprenderseli poi in feudo e inoltre pagare mille lire veronesi e lasciare liberi i sudditi di Dermulo” [3]. E’ però solo certo che, dopo la riappacificazione fra i de Denno e i de Appiano, i primi dovettero cedere la loro proprietà allodiale dei castelli di Denno e della Corona, rinunciare a un podere a Rumo in luogo delle 1.000 lire di multa per l’assassinio di un altro conte, e cioè Enrico Mucio de Appiano, e restituire il feudo di Dermulo costituito dai servi, che rimasero poi in possesso, sempre come servi, della chiesa trentina come stabilito dal vescovo Federico Wanga con la decisione dell’11 febbraio 1218 [4]. Lo status servile dei dermulani venne in seguito a modificarsi sensibilmente perché, forse già nel 1303 ma certamente nel 1350, vennero assoggettati alla collette in ragione di nove fuochi “fiscali”, cosa che non sarebbe avvenuta se fossero rimasti nella medesima condizione, in quanto i servi, nullatenenti per definizione, non dovevano (non potevano) pagare le collette. E’ quindi evidente che anch’essi beneficiarono in qualche modo della rivoluzione sociale del 1236-39. La documentazione raccolta da Paolo Inama sul suo paese, consente anche di precisare alcuni aspetti poco conosciuti per non dire ignoti di come stavano le cose nel cruciale secolo XIII. La condizione servile di tutta la popolazione, eccetto i pochi nobili-milites e liberi, comportava che loro svolgessero tutte le mansioni e lavorassero la terra per i loro padroni, nulla possedendo di proprio neppure se stessi. Si trattava di una condizione ben peggiore di quella originata dall’editto di Diocleziano con cui istituì la “servitù della gleba” ed essa si determinò con le invasioni barbariche: possiamo quindi parlare di vera e propria schiavitù di massa. I servi-schiavi venivano infatti compravenduti oppure concessi in feudo e il padrone ne disponeva a suo piacimento anche della vita[5]. La chiesa in questo non fu da meno dei barbari e soltanto la pietà dei singoli padroni poteva modificare le condizioni di vita, ma nessuno si sognava minimamente di modificare lo status giuridico dei servi-schiavi, supportati in questo anche dalle fonti bibliche e dai dottori della chiesa che si rifacevano al pensiero politico di Platone e soprattutto di Aristotele. Nel periodo in questione i rapporti fra servi e padroni forse si erano leggermente modernizzati. L’utilizzo della parola fictus o adfictus starebbe a dimostrarlo. Non va però intesa nella accezione, abbastanza recente, di canone di locazione, bensì alla lettera cioè “aggiunta”. La frase contenuta nella sentenza imperiale del 1239 di Pier della Vigna … item preceperunt per sentenciam dicto sindico et procuratori presenti per ipsos quos debant solvere et prestare integre militibus et dominis suis omnis ficta et redditus et decimas et raciones suas que vel quas eis debent et licita servicia eis prestare et facere…, si riferisce con chiarezza agli obblighi dei servi-schiavi, che sono sostanzialmente gli stessi a cui erano obbligati de jure gli uomini di Dermulo (cfr. documento 141). I ficta erano quindi la parte eccedente delle attività rurali, quella cioè che non serviva all’autosostentamento. La modernizzazione cui accennavo dovrebbe essere consistita nella predeterminazione del quantitativo eccedente il fabbisogno vitale dei servi, appunto il fictus. In questa accezione deve quindi intendersi questa parola contenuta del documento di Dermulo del 1275 [6] nel quale, per ordine di Mainardo II, furono recensite le proprietà della chiesa trentina. L’entità del fictus di Dermulo, del quale non a caso viene indicato soltanto l’ammontare complessivo nominale, era di 50 moggi di avena come risulta da una pergamena di poco successiva ovvero del 1279 [7]. Inoltre, nel documento del 1275 il verbo possidere, utilizzato in riferimento a chi lavorava determinati appezzamenti evidentemente da solo, non significa ancora “possesso” - cioè che si fosse instaurato un rapporto assimilabile alla locazione perché in tal caso si sarebbero anche recensiti i corrispettivi vale a dire i “livelli” o “gaffori” - ma soltanto che la condizione di servi-schiavi si stava evolvendo per cui la lavorazione delle terre del padrone non avveniva più mediante corvè. Lo status dei dermulani nel 1275 era quindi ormai prossimo a quello di semiliberi, che sicuramente si raggiunse nel giro di poche generazioni. Ma poiché non v’è traccia di un documento che attesti l’emancipazione dei servi della chiesa, né a livello di Principato né locale, significa che le conquiste sociali non furono mai riconosciute di diritto ma soltanto di fatto. Una esplicita conferma dello status giuridico non riconosciuto in cui venne a trovarsi questa popolazione lo si trova nella Carta di Regola di Dermulo, unica nel suo genere: i primi cinque articoli si preoccupano infatti, con una insistenza che non lascia dubbi in tal senso, che nelle festività specificate “nessuno presuma di lavorare e”, soprattutto, “di far lavorare”. Si può anche verificare nelle vicende di Dermulo come la diffusione della proprietà allodiale fra gli abitanti sia avvenuta in modo diverso da quello di Rallo e soprattutto minore. A Rallo ciò avvenne principalmente per via ereditaria, originata dalla diramazione degli antichi nobili de Rallo in capo ai quali si era venuta a concentrare la pressoché totalità del patrimonio fondiario allodiale nel corso del secolo a cavallo fra il XIII-XIV, mentre a Dermulo fu il frutto di lente acquisizioni. La minore e più lenta diffusione della proprietà allodiale fu cagionata dal fatto che il possesso iniziale era in capo a domini estranei alla comunità di Dermulo e che i singoli vicini, partendo da zero in quanto ex-servi, dovettero stentare parecchio ad accumulare i capitali necessari all’acquisto. Questo processo storico è tutt’oggi evidente e in ciò risiede il motivo per cui molti terreni sono di proprietà di persone estranee alla comunità locale, a differenza di quanto si può constatare a Rallo. Solo in epoca moderna, a partire dal XVII secolo, il fenomeno della diffusione della proprietà allodiale accelerò mediante l’alienazione dei beni comuni ai singoli vicini. L’attuale assetto si raggiunse poi nel corso del secolo XIX con l’allodificazione dei feudi e infine nel XX si ebbe anche la trasformazione della condizione giuridica degli allodi in proprietà privata andandosi ad intaccare in questo modo la natura essenziale degli allodi cioè di essere franchi e non preordinati all’esproprio. Dopo la morte di Mainardo II e il riappacificamento dei suoi figli con i vescovi si assiste alla restaurazione del feudalesimo a partire dal 1307 (vescovo Bartolomeo Querini 1304-1307) e ancor più incisivamente con il suo successore Enrico III da Metz (1310-1336). I tentativi federiciani e mainardiani di instaurare la monarchia assoluta andranno quindi definitivamente falliti e il feudalesimo ritornò come forma di governo del Principato Vescovile e permase fino alla sua secolarizzazione. Invece le conquiste della rivoluzione furono rafforzate dalla rivolta vittoriosa del 1407 e non più messe in discussione nemmeno dopo quelle fallite del 1477 e 1525. I due casi di Rallo e Dermulo assumono valenza paradigmatica nel contesto quantomeno delle Valli. Quanto avvenne nel periodo in esame delineò il quadro d’insieme che rimase sostanzialmente immutato fino alla rivoluzione francese. Riassumendo: per quando riguarda la massa della popolazione essa soggiaceva alla condizione di schiavitù, retaggio dei secoli bui; grazie alla rivoluzione sociale del 1236-39 - il cui successo fu assecondato dal comportamento dell’imperatore Federico II e, in maniera più netta, di Mainardo II - conseguirono uno status di semiliberi e quindi assoggettabili alle tasse patrimoniali; nacquero contestualmente le comunità democratiche di villaggio e gli organismi rappresentativi di Valle come le conosciamo dalle carte di regola e dagli statuti; venne acquisendosi la proprietà allodiale pur con modalità diverse. Per quando riguarda i nobili, e il clero in misura però minore e diversa, essi persero il dominio assoluto e molta parte delle terre; molti casati furono spazzati via o drasticamente ridimensionati dall’azione combinata del popolo e di Mainardo II; i castelli esistenti furono rafforzati e altri ne sorsero a scopo di difesa personale perché spaventati dalla rivoluzione e dalla forza delle neo comunità; si originò la cosiddetta nobiltà rurale a seguito del frazionamento del territorio delle Valli nelle due diverse giurisdizioni, tirolese e vescovile, ma va anche detto che essa fu il prodotto di una rapida mutazione o degenerazione della nascente borghesia che nel restaurato sistema feudale trentino non trovò sbocchi.
[1] I due documenti sono stati gentilmente tradotti da Paolo Odorizzi.
[2] Il titolo di possesso originario dei servi cioè se fossero di proprietà dei de Denno o feudo della chiesa è dubbio. Il lodo della curia con cui il feudo costituito dai servi di Dermulo fu dichiarato “aperto”, cioè suscettibile ad essere concesso in nuova investitura, come richiamato nel documento del 1218, lascia aperto il quesito perché potrebbe essere anche stato che i de Denno siano stati costretti preventivamente a cederlo alla chiesa al pari dei loro castelli come sembra potersi intendere dalla traduzione del passo quos de jure solvere consueverant ab antiquis suis dominis. L’ipotesi poi che l’insediamento di Dermulo si sia originato da un’immigrazione di servi-schiavi provenienti da Denno probabilmente perchè mettessero a coltura i boschi è ammessa implicitamente anche dall’Ausserer dando un certo credito alla tesi di Carlo Inama il quale, non capacitandosi dell’origine e significato dello suo stesso cognome prevalente fra i dermulani, credeva fosse in relazione con questi servi ipoteticamente immigrati da Denno e quindi da Eneanis = proveniente da Enno. (K. Ausserer, Der Adel, pag. 94). In realtà Inama è un patronimico e il capostipite fu individuato in un Innamius figlio di Bonacontus vivente nel 1342 da Hans Inama Sternegg nipote dello stesso Carlo. Quindi tale ipotesi è del tutto infondata. Devo però soprattutto rilevare come l’Ausserer a pagina 93 del Der Adel abbia completamente travisato il contenuto dei documenti del 1218 e 1220 sostenendo la erronea tesi che i dermulani siano stati liberati dal vescovo. Anche l’Inama incorse nel medesimo errore, probabilmente influenzato dall’Ausserer (cfr. Storia delle Valli pagina 133 e nota 2 dove riporta parzialmente il testo del codice Wanghiano). Egli, convinto dell’esattezza di questa interpretazione che scaturisce da un’errata traduzione del documento n° 141 del codice Wanghiano, - in particolare della frase … feodum de infrascriptis hominibus de Hermulo … che non significa “…il feudo (di proprietà) degli infrascritti uomini di Dermulo…” perché in tal caso si sarebbe scritto “feodum infrascriptorum hominum”, bensi “… feudo costituito dagli infrascritti…” - insiste nell’errore (nota 3) e travisa anche il contenuto delle fonti da lui stesso citate (gli Annali dell’Alberti a pagina 79 e il codice Wanghiano n° 141) arrivando addirittura a sostenere che le terre feudali di Dermulo dei de Denno “siano state distribuite fra tutte le famiglie del villaggio (inter homines) che erano state liberate dalla servitù” il che non è scritto in nessun documento, tantomeno che i de Denno avessero possessi feudali fondiari a Dermulo. Peraltro questa convinzione potrebbe derivare dal sillogismo che se avevano servi dovevano avere anche la terra. Comunque il documento del codice Wanghiano dice espressamente e solo che il feudo è costituito da certi uomini di Dermulo i cui nomi sono puntualmente elencati.
[3] Der Adel des Nonsbergers, pagina 181 e nota 2 pagina 186 dove cita la fonte che rimanda agli indici del codice Wanghiano a pag. 351. La somma delle punizioni, a parte l’abbaglio sullo status degli uomini di Dermulo, in realtà risulta dalla trascrizione del documento di pace con gli Appiano trascritto sia dall’Huter II n. 716 che dal Kink n. 137.
[4]
Francesco Felice Alberti d’Enno,
osservò che in questo modo il Wanga toglieva di mezzo gli ultimi liberi
signori delle Valli, completando così la feuadalizzazione del Principato (I
signori de Enno pag. 115).
In realtà i de Denno erano già vassalli della
chiesa e i loro beni prevalentemente feudali, ivi compresi i servi di
Dermulo; vero invece che il Wanga completava in questo modo il disegno di
acquisire tutti i castelli e renderli feudali.
[5] Questo in base al lodo della curia vescovile.
[6] Archivio castel Bragher.
[7] Lucia Povoli, “Economia, società e rapporti politici in Trentino al tempo del vescovo Enrico II” (sulla base di 161 documenti inediti) tesi di laurea, Università di Padova, a.a. 1983-84, consultabile all’ASTn; trascrizione n° 81
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