DERMULO 1858: DUE FATTI DI CRONACA NERA

 

 

INTRODUZIONE
L'OMICIDIO DI GIOBATTA BATTOCLETTI   LA RAPINA AI DANNI DI GIOVANNI SALAZER
L'INTERROGATORIO DEGLI IMPUTATI   L'INTERROGATORIO DEGLI IMPUTATI
L'ESAME DEI TESTIMONI   IL RACCONTO DI GIOVANNI SALAZER
LA REQUISITORIA DEL PROCURATORE   LA REQUISITORIA DEL PUBBLICO MINISTERO
LO SCENARIO DEL CRIMINE    

 

 

 

INTRODUZIONE

 

Grazie al reperimento nella rete web della rivista di giurisprudenza penale “L’eco dei tribunali”, sono venuto a conoscenza di due fatti di cronaca accaduti a Dermulo nel 1858, a distanza di poco più di un mese l’uno dall’altro. Del fatto più grave conoscevo solo dell’epilogo finale, ossia la condanna a 20 anni di carcere dell’imputato, dell’altro invece nulla si sapeva. Nelle riviste stampate a Venezia con cadenza bisettimanale, ma raggruppate e digitalizzate in un unico documento, sono tra l'altro presenti i resoconti delle due sessioni del Tribunale di Trento del 1 e 2 settembre 1858, riguardanti il processo relativo ai due crimini. Il procedimento fu unico in quanto le stesse persone erano implicate a vario titolo in entrambi i misfatti. La dinamica poco chiara dell’accaduto, in uno, e l’ostinazione a negare il proprio coinvolgimento, nell’altro, hanno dato luogo ad un lungo dibattimento che ci ha permesso di conoscere uno scorcio di vita paesana di metà Ottocento. La commissione giudicante era composta dal presidente del tribunale, Fiumi, da due giudici, Ferrari e Nodari coadiuvati dagli "aggiunti", Mutinelli e Dallago. Erano presenti inoltre il pubblico ministero Ziller; e gli avvocati difensori, Dordi per Domenico Endrizzi e Ducati per i cugini Tamè. Di nessuno dei predetti compare il nome di battesimo, pertanto, fatta eccezione per qualcuno, è risultato difficile ottenere altre informazioni. I cognomi degli imputati e di qualche testimone invece, forse per un primordio di privacy, sono stati leggermente camuffati per cui Endrizzi diventò Enzi, Tamè, Tema e Mendini, Mendi.

[(in altro luogo ho scoperto era Domenico Fiumi (1808-1884), (Con R. decreto 6 gennaio 1867:Mutinelli car. nob. Giuseppe, consigliere nel tribunale d'appello in Venezia, collocato a riposo. ) (forse Girolamo Dallago (1813-1903). Carlo Dordi]

Di tutta la storia sono rimasto positivamente colpito per come sono state svolte le indagini e come, alla fine, si sono tratte le motivazioni per le condanne o le assoluzioni degli imputati, secondo me in modo molto equo. La descrizione e le perizie espletate furono molto minuziose e dettagliate e, ripeto, mi sono fatto un’idea che la giustizia in quel frangente avesse davvero trionfato.

Il caso meno grave vedeva imputati per rapina i cugini Giovanni e Vigilio Tamè ai danni di un tale Giovanni Salazer di Revò. Quest’ultimo la sera del 13 febbraio 1858, dopo aver trascorso il pomeriggio sbevazzando qua e là, si era portato nella bettola di Giacomo Endrizzi a Dermulo, dove aveva perseverato con l’alcol. La serata era allietata da una piccola orchestrina che era consuetudine ricompensare con le offerte degli avventori. Il revodano, oltre a disturbare le persone che ballavano, si era pure rifiutato di corrispondere la piccola offerta richiestagli, per cui ne era sorta una discussione fra i presenti, in particolar modo con Giovanni e Vigilio Tamè. Lasciando l’osteria, il Salazer che era talmente ubriaco da dover essere aiutato a salire in groppa al suo mulo, si avviò verso Revò. Poco dopo aver imboccato la strada delle Plazze, presso le Doivie, l’uomo cadde dal mulo finendo in mezzo alla neve, dove rimase per più di un’ora. Dopo aver smaltito la sbornia raggiunse Revò e dovendosi forse giustificare con il padre per non avere con se il provento della vendita di vino, denunciò alle autorità di essere stato vittima di una rapina. Secondo il suo racconto due o tre uomini a viso coperto gli avevano intimato di consegnare i soldi e, oltre a colpirlo con un palo disarcionandolo dal mulo, gli avrebbero sottratto il denaro. La denuncia che inizialmente non pareva avere indiziati, prese una piega diversa quando le autorità, trovandosi un mese dopo in paese per indagare sull’omicidio di Giobatta Battocletti, avevano raccolto delle voci circa l’alterco avvenuto nell’osteria fra i Tamè e il Sallazer. Contro di loro, a parte il breve contrasto avuto nella bettola Endrizzi, c’erano solamente delle asserzioni portate da altri testimoni non del tutto lucidi e poco affidabili, per cui, viste anche alcune contraddizioni nelle quali era caduto il Salazer, furono assolti.

Il secondo crimine invece fu molto più cruento, si trattava infatti di un brutale omicidio perpetrato la notte del 25 marzo 1858 ai danni di un uomo di Cavareno e per il quale furono imputati Domenico Endrizzi e Giovanni Tamè. Il primo risultò essere l'esecutore del delitto, mentre il Tamè pur avendo avuto un ruolo marginale, confessando la sua presenza sul luogo del delitto, fu ritenuto corresponsabile e perciò condannato a 8 mesi di carcere. La colpevolezza dell'Endrizzi fu invece dimostrata solamente grazie alle prove indiziarie e ad alcune testimonianze che furono determinanti, non ultima quella del suo complice. Infatti Domenico non ammise mai la sua colpa e cercò di smontare le prove a suo carico, accampando scuse poco credibili e inventandosi falsità. Ma la strategia servì a poco perché i giudici lo condannarono a 20 anni di carcere duro nelle prigioni di Capodistria, dove morì nel 1873 all'età di 40 anni, quando gliene mancavano ancora 5 per finire di scontare la pena.

Le domeniche e durante le feste di precetto, alla gente era interdetto ogni lavoro e tutti dovevano partecipare alle numerose funzioni religiose previste. Così fu anche a Dermulo, quel giorno 25 marzo 1858, festa dell’Annunciazione di Maria, dove fra una Messa, una funzione e un Rosario gli uomini frequentavano le osterie abbandonandosi a memorabili bevute. Fra di loro non mancavano sicuramente i due imputati le cui vicende furono ricostruite durante l’interrogatorio. Giovanni Battista Battocletti, partito verso le 23 da Cavareno per recarsi a Trento, e che si trovava a transitare per Dermulo poco dopo la mezzanotte, fu rincorso, assalito e ucciso perché Domenico Endrizzi (el Minico), annebbiato dall’alcol, lo aveva scambiato per un’altra persona. Chi fosse stato il bersaglio di Domenico non fu del tutto chiaro, ma le due persone candidate erano Vittore Emer e Andrea Endrizzi, entrambi di Taio. Con il primo, Domenico aveva avuto diversi momenti di tensione, sfociati qualche tempo prima in una revolverata intimidatoria e questo, a quanto sembra, solo perché l’Emer, durante un ballo si era rifiutato di ballare una polka in sua compagnia. Con Andrea Endrizzi, lo stesso giorno dell’omicidio, nell’osteria dei Cialiari era successo qualcosa di non molto chiaro. Sembra che Domenico avesse voluto trattenere Andrea per cantare, ma questo, nonostante le insistenze, non lo avesse assecondato e se ne fosse ritornato a Taio. Durante l’inchiesta si cercò di capire anche questo aspetto e fu riportata da un testimone la frase udita da Bortolo Mendini, nonno di Domenico: “quei do mostri non credevano mica di dare a quel povero forestiero, ma bensì ad Andrea Endrizzi, il quale s'era allontanato dalla casa dei fratelli Emer, ove erano a bere, senza salutarli”. L’asserzione di Domenico “ses ancor ci can da la madona”, udita e riferita al giudice dall’amico Tamè, farebbe proprio pensare che la sua ira fosse rivolta ad Andrea Endrizzi. Questo, sebbene Giovanni Tamè avesse affermato che lo stesso Domenico gli aveva detto di aver scambiato il Battocletti con Vittore Emer. In ogni caso, come già detto, l’alcol aveva contribuito alla confusione, e nell’innocente Battocletti, Domenico aveva visto la persona su cui sfogare il proprio odio.

La trascrizione che segue è stata fedelmente ricopiata dalla rivista “L’eco dei tribunali” dove il fatto si presentava frammentato, come in una storia a puntate, nel corposo file pdf di 855 pagine. Ho ritenuto di presentarla integralmente anche se alcune cose risulteranno ripetute. I cognomi sono quelli reali e ho messo in parentesi quadra qualche spiegazione del testo. Le frasi o parole in parentesi tonda sono invece quelle presenti nel testo originale.

 

L'OMICIDIO DI GIOVANNI BATTISTA BATTOCLETTI DI CAVARENO

 

I FATTI COME NARRATI NEL PROCCESSO

Un’ora e più dopo la mezzanotte, sopra il 25 marzo festa della Annunziazione di Maria, [era la festa che celebrava il giorno dell'annuncio da parte dell'arcangelo Gabriele del concepimento della Beata Maria Vergine] venivano sentiti da parte degli abitanti di Dermulo, distretto di Cles, le grida ed i lamenti di un individuo, che doveva trovarsi in qualche funesto frangente. Queste grida angosciose di Oh Dio! Oh Dio! Cominciarono alla strada nuova commerciale [la strada nuova era stata costruita nel 1855] sopra il villaggio di Dermulo, continuarono poscia lungo le case a mattina, ed andarono a compenetrarsi nel cortile della casa Martini, che è l'ultimo dei fabbricati posti a lato della strada vecchia verso Tajo. Vigilio Tamè guardaboschi, che alle prime grida si affacciò alla finestra di sua abitazione, [parte a est della casa n. 4] potè perfino vedere una persona forestiera di statura piuttosto piccola, la quale lamentandosi era inseguita da due altri, e dirigevasi verso la casa Martini. Quando il forestiero giunse alla casa Martini, deve avere ascesa la scala, che dal cortile mette al ponticello, da dove si ha accesso alla abitazione. Là fu sentito a picchiare agli usci, ma siccome la casa è disabitata, nessuno gli poteva aprire né accoglierlo, comunque le grida di soccorso fossero ripetute. I due, che inseguivano il forestiero, erano l'uno a qualche distanza dall'altro, e al pari del forestiero procedevano a passo accelerato, cosicchè era manifesto che andavano sulle tracce di lui. Il Vigilio Tamè depone che, allorchè il primo dei due potè essere arrivato al cortile e dalla casa Martini, sentì di nuovo un urlo a gola aperta di: Oh dio, aiuto, e che all'arrivo del secondo la voce di: Oh dio, che emetteva il forestiero, pareva farsi più fioca. A ciò è quindi susseguito un profondo silenzio. Dopo 10 o 12 minuti o poco più vennero veduti a ritornare dalla volta della casa Martini i due individui che avevano inseguito il forestiero. Quando furono sulla strada commerciale si parlarono sommessamente, presero dappoi una direzione opposta l'uno cioè verso Tajo e l'altro verso Sanzeno, ma fatti appena cento passi retrocessero allo stesso punto, e quindi si allontanarono assieme nella direzione verso Sanzeno. [In realtà non andarono verso Sanzeno ma passando sotto il portico di Giovanni Endrizzi raggiunsero la fontana] Il terzo individuo non fu più visto né sentito a retrocedere dalla casa Martini. La mattina del giorno successivo 26 marzo nel cortile della casa Martini si presentava una scena d'orrore. Giaceva supino sopra il letamaio in corrispondenza alla parte più interna del cortile e precisamente presso un gelso, e sottoposto al ponticello della casa verso il cesso, il cadavere di un forestiero tutto intriso di sangue, e trasfigurato nella faccia in parte per le molte ferite a quella inferte e in parte per aversi sparse sulla faccia stessa delle piume di gallina, che commiste al sangue rappreso vi stavano aderenti. Intorno al cadavere vi erano delle grosse pietre macchiate di sangue, ed una perfino con capelli aderenti color castagno, del tutto simili a quelli dell'infelice ivi sagrificato. Si osservava esistere a poca distanza dal cadavere una gallina senza testa, ed altra pure di recente strozzata. Le piume di cui era sparsa la faccia, nonché i capelli del cadavere provenivano da queste galline spennacchiate. Le galline poi dovevano derivare dal vicino pollaio della stessa casa Martini, la di cui porta fu trovata forzata ed abbattuta, con altra gallina di recente strozzata. Il ponticello offriva qua e là estese macchie di sangue recente; nella parte sovrapposta al letamaio, ove stava il cadavere, mancava un’asse dello sprangato; dal gelso vicino erano staccati due ramoscelli, che giacevano al suolo. Era quindi manifesto come quell'individuo abbia avuto il primo scontro sul ponticello, e come di là sia stato gettato nel cortile. Sul piano del ponticello eravi una corda da cappello; nel cesso contiguo al ponticello fu trovato un cappello; in un vano del muro presso l'uscio d'ingresso all'abitazione si rinvennero un fazzoletto da naso, un pezzo di torta, e delle carte ove figura, come convenuto in causa, Giovanni Battista Battocletti di Cavareno; simili pezzi di torta ed altri pezzi di carta al nome di Giovanni Battista Battocletti, quale convenuto, esistevano anche nel cortile più o meno vicini al cadavere. Tutti questi dati vennero verificati giudizialmente dalla Commissione della i.r. Pretura inquirente intervenuta sulla faccia del luogo al primo annuncio del fatto. Dal protocollo verbale relativo del 26 marzo consta altresì come il cadavere sia stato riconosciuto per quello di Giovanni Battista Battocletti di Cavareno, villaggio del distretto di Fondo. Questo infelice era partito da sua casa circa alle ore 11 e mezzo di quella notte, e solo era si diretto per affari alla volta di Trento. Come depone Giuditta Larcher, vedova lasciata da Giovanni Battista Battocletti, non poteva questi avere che pochissimi denari alla partenza da casa; non seppe tuttavia precisare se soltanto pochi carantani, o qualche cosa di più. Per maggiore economia di spesa esso si aveva preso dietro la torta, che poi si rinvenne presso al cadavere, assieme alle carte ed altri effetti rinvenuti di sua spettanza. Nella visita degli indumenti del cadavere, ha la Commissione giudiziale trovato nella saccoccia destra del giacchetto un taccuino con delle memorie scritte, e nella saccoccia destra dei calzoni una borsa di pelle, con entro quattro carantani e mezzo in rame. Le ferite riscontrate sul cadavere erano altre al capo, altre alla faccia, ed altre alla mano destra: altre di queste praticate mediante stromento incidente, e probabilmente da una ronchetta bene affilata ed altre da stromento contundente lacerante: tutte portate alla parte destra del corpo dell'interfetto [l’ucciso]. Una di queste ferite fu giudicata grave con pericolo di vita come quella che aveva tagliata trasversalmente l'arteria alla regione radio-carpica della mano destra, e che in mancanza di pronto soccorso doveva anzi apportare la morte dell'offeso. Un’altra e precisamente quella alla regione occipitale destra del capo, che fratturò l'osso del cranio, e che apportò all'istante una violentissima commozione cerebrale fu ritenuta come ferita assolutamente mortale, e questa fu anche la causa immediata della morte del Battocletti. Tale ferita fu praticata mediante stromento lacerante contundente, e poteva anche essere l'uno dei sassi intrisi di sangue trovati presso il cadavere, vibrato con gravissimo grado di forza contro la parte colpita. Tre altre ferite, delle quali due apportate con istrumento da taglio, ed una con istrumento contundente lacerante appartenevano alla classe delle lesioni gravi. Rispetto a cinque altre finalmente non si trattava che di ferite soltanto leggiere, tre delle quali cagionate con arma di taglio, e due con istrumento contundente, lacerante. Le circostanze di fatto ora accennate fecero insorgere già nei suoi primordii la supposizione che chi consumava l'omicidio del forestiero, il quale credeva ripararsi a cercare aita in casa non disabitata, dopo l'esecuzione del misfatto, abbia abbattuta la porta del pollaio, strozzati i polli, gettati altri di questi intorno al cadavere, e sparso per di più sopra il cadavere stesso delle piume, allo scopo unico di far credere che si trattasse di furto di polli, e che colto il ladro in flagranti fosse questo rimasto vittima per opera di chi lo sorprese. In tal modo l'autore od autori del misfatto non potevano avere altra mira, che di allontanare da sé i sospetti, e farli possibilmente cadere su altri, e come pare sul proprietario della casa, Emilio Martini, [dovrebbe essere stato uno dei figli di Antonio Martini medico chirurgo di Revò abitante a Taio] abitante nel vicinissimo villaggio di Tajo. Il Giudizio penale ebbe però tantosto argomento di dirigere le pratiche contro i veri autori, contro gli odierni accusati cioè Domenico Endrizzi e Giovanni Tamè. Questi due avevano gozzovigliato come al solito fino ad ora molto inoltrata della notte, avendo solo alle ore 11 abbandonata la casa dei fratelli Pietro e Giovanni Emer, ove si dispensava vino. Fino alle ore 10 e mezzo era stato in loro compagnia colà anche Andrea Endrizzi di Tajo, ma questi dopo essere sortito qualche momento al di fuori sulla strada col Domenico Endrizzi colse opportuna occasione per distaccarsi insalutato ospite, poiché non era gran fatto tranquillo sulle intenzioni di costui, che avea già incominciato a parlargli in tuono ardito, e che d'altronde gli era noto come attaccabrighe. Vigilio Tamè descrisse i due individui, che inseguirono il forestiero verso la casa Martini in modo coincidente colle persone dei due accusati, ed ha anzi soggiunto che esso ritenne, ed è persuaso fossero i medesimi e precisamente Domenico Endrizzi quello che inseguiva per il primo il forestiero, e Giovanni Tamè quello che qualche tratto più tardo andava dietro dell'Endrizzi. Anche il testimonio Giovanni Endrizzi ebbe in quella notte a ora assai tarda a vedere i due individui, l'uno dei quali riconobbe quasi indubbiamente per l'accusato Domenico Endrizzi. Questo testimonio assieme al proprio figlio Nicolò avea una buona mezz'ora prima sentito le grida: Oh dio! Oh dio! Proferite da chi s'era ridotto presso la casa Martini. Dappoichè le cose erano quiete, sentì e vide provenire dalla strada commerciale due persone, che, passando per la stradella, che sta sotto il portico della di lui casa, si diressero alla fontana. In una di queste riconobbe, come gli parve, il Domenico Endrizzi. Il testimonio ritenne che fosse costui, non soltanto dalla statura, corporatura, e portamento a lui riferibili, ma benanche dall'abitudine del medesimo di girare di notte, e dalla cattiva sua indole, nel che si confermò, massimamente quando il dì dopo seppe del tristo caso avvenuto la notte, che non poteva attribuirsi che a Domenico Endrizzi, uomo violento, e bisognoso, e sotto più aspetti capace di cotali misfatti. La mattina del 26, ancor prima che la Commissione giudiziale arrivasse sul luogo, l'accusato Endrizzi si recò a Tajo, [Domenico lavorava presso la fabbrica di manici da frusta di Francesco Rosetti] e passando sotto la casa del falegname Eugenio Zadra, fu da questo eccitato ad ascendere, curioso di sapere il caso successo la notte a Dermulo, e di cui si era già sparsa in Tajo la notizia. L'Endrizzi raccontava di essere stato a vedere il cadavere nel cortile della casa Martini, ma che dopo quello spettacolo non era egli più uomo. Soggiunse che ei sarebbe sicuramente condotto ancora quel giorno in prigione, perché sanno che esso è un beghetta (attaccabrighe) e perché nella sera in parola esso era stato fuori fino le ore 11. Nel fare questi discorsi, si trovava l'Endrizzi in un moto semiconvulso, pareva poco conscio di sè, avea l'occhio infiammato, e spargeva qualche lagrima. Talmente forte era la di lui commozione, che non appena allontanatosi, ebbero Eugenio Zadra e il suo garzone Giacomo Bugnoni a ritenere che l'autore del misfatto doveva essere stato l'Endrizzi, e che lo si avrebbe anzi dovuto tantosto legare. Che l'Endrizzi temesse di venire arrestato lo ebbe a manifestare quella stessa mattina anche in faccia alla propria madre. La testimone Marianna Mendini depone che l'avo materno [nonno] dell'accusato, Bortolo Mendini, lo sentì esso stesso a esprimersi verso la madre: che egli verrà sicuramente incolpato del fatto; che potrebbe anche fuggire, ma che non saprebbe dove andare; che tuttavia egli non era l'autore del fatto, e che perciò non fuggiva. Il Bortolo Mendini poi aggiungeva verso la testimone, che quei do mostri (suo nipote, e Giovanni Tamè) non credevano mica di dare a quel povero forestiero, ma bensì ad Andrea Endrizzi, il quale s'era allontanato dalla casa dei fratelli Emer, ove erano a bere, senza salutarli. L'accusato Domenico Endrizzi fu arrestato ancora entro il giorno 26 marzo, e all'atto del suo arresto veniva presa sotto custodia giudiziale nella sua abitazione una giacchetta di fustagno di color oliva scuro, la quale a suo dire era stata da lui indossata il giorno precedente. Il giorno 29 marzo fu praticata altra perquisizione al domicilio di Domenico Endrizzi, e in una cassetta si rinvenne un paio di calzoni della stessa roba della giacchetta. Nello stesso incontro Teresa Endrizzi madre dell'accusato condusse la Commissione giudiziale nella propria casa, e consegnò una podina (ronchetta) ferma in manico, [la podina era un coltello a serramanico a punta ricurva adoperato dai fabbricatori di fruste] che dichiarò spettare al figlio, ivi conservata in un armadio della cucina. Dalle visite e perizia assunte sugli indumenti e sulla podina in parola, emerse come la giacchetta fosse stata in parte lavata del tutto recentemente, in quanto chè fu osservata ancora umida, e ciò nonostante si trattasse di un vestito nuovo al pari dei calzoni, e che l'accusato ebbe per la prima volta a indossare il 25 marzo. In onta però alla lavatura della giacchetta, si rilevarono ancora le tracce indubbie di diverse macchie di sangue, e d'una macchia in ispecialità alla schiena, la quale era sfuggita alla lavatura. Sui calzoni erano rimarcabili, le macchie di sangue sia al davanti, che al di dietro, come pure alle saccocce. Anche sulla podina rilevate vennero in diverse parti delle tracce di sangue, comunque apparisse che il manico fosse stato raschiato da poco. I periti ritennero che le tracce di sangue fossero di data del tutto recente, la quale anzi combinava con quella del sangue ravvisato sui sassi rinvenuti presso il cadavere del Battoeletti. L'accusato, che si mantenne costantemente negativo sulla data gli imputazione, ammise di avere la sera del 25 marzo indossati la giacchetta, e calzoni in presentazione, e di avere altresì avuta presso di sé la podina suddetta. In quanto alle macchie di sangue sulla giacchetta non sa egli dare una spiegazione qualunque; rispetto a quelle dei calzoni e della podina introdusse una storiella altrettanto strana, quanto inveritiera. Pretende cioè che nelle ore pomeridiane del 25 marzo, dopo avere assistito a un giuoco di bocce, nel restituirsi a sua casa scagliò un sasso contro un cane forestiero, che, colto al capo, restò morto sul colpo. Egli raccolse il cane e lo recò penzolone davanti di sé a sua casa, ove vuole avergli levata la pelle tenendolo disteso sul suolo in un involto, avendo poi gettato il tutto oltre la sua casa verso la valle. In tal modo sostiene aversi macchiato i calzoni e la podina. Su questa sua asserzione risulta però l'accusato apertamente smentito dalle pratiche processuali in tale riguardo assunte. Esso accusato sostiene che, dopo essere partito circa alle ore 11 dalla dispensa di vino dei fratelli Emer, lasciato il compagno Giovanni Tamè, si restituì senz'altro alla propria abitazione senza più sortire fino alla mattina. I deposti già sopra accennati fatti da Vigilio Tamè e da Giovanni Endrizzi, servono già a riconvincerlo del contrario. Ma si aggiunge che i coniugi Giacomo e Rosa Endrizzi, che hanno una bettola, sentirono alcuno a picchiare ed anche a chiamare dopo la mezzanotte, e che la moglie, come anche si espresse al momento verso il marito, vuole avere conosciuto alla voce essere il Domenico Endrizzi. Anche l'accusato Giovanni Tamè fu arrestato entro il giorno 26 marzo, e nell'esame informativo sostenuto il giorno stesso, fece credere come si fosse esso restituito la sera innanzi a sua casa già alle ore 11, dopo sortito col Domenico Endrizzi dalla casa dei fratelli Emer. In quanto ai vestiti, pretendeva avere indossati quelli stessi, che portava al momento del suo arresto, e fra questi una giacchetta di mezzalana. [panno pesante tessuto con ordito di canapa e trama di lana] Se non che, in un posteriore suo esame, ha egli decampate da tali sue allegazioni, ed in questo e nei costituti ha esso ora contato: Che, dopo sortiti dalla casa dei fratelli Emer, continuarono esso e Domenico Endrizzi a girovagare portandosi sulla strada nuova commerciale, che da quella dopo trascorsa di molto la mezzanotte vollero andare dall'oste Giacomo Endrizzi per bere un caffè, ma che, non essendovi più lume acceso, ritornarono sulla strada commerciale. Là essendo, nel mentre esso Tamè si era tirato in disparte per soddisfare a un suo bisogno naturale, giunse dalla parte di Sanzeno un individuo forestiero, il quale gli passò innanzi, e pervenuto ove stava l'Endrizzi, fu da questo senz'altro investito col dirgli: Ses chi (sei qui) ancora can dala madona? Il forestiero gridando: Oh dio! Oh dio! Si diede alla fuga correndo, saltò la siepe del prato Martini, verso il villaggio, e si diresse pel prato verso il cortile della casa Martini. Domenico Endrizzi lo inseguiva. Ciò vedendo esso Tamè si è tosto alzato, e coi calzoni tra mano corse dietro all'Endrizzi, e quando giunse nel cortile della casa Martini vide il forestiero inseguito dall'Endrizzi sul ponticello. Ridottisi in fondo al ponticello vicini al cesso, osservò che l'Endrizzi gettò dal ponticello il forestiero, il quale venne a cadere sul sottoposto letamaio. L'Endrizzi spiccò egli stesso dal ponticello un salto, ed afferrato un sasso molto voluminoso glielo gettò sulla testa. Dopo questo sasso ne avrebbe l'Endrizzi gettati degli altri addosso al forestiero. Era esso alla vista del sangue divenuto un mostro di crudeltà, e quale un indemoniato, dopo i sassi, sopprimeva in quell'uomo gli ultimi aneliti con calci nel capo. Continua il Tamè a deporre che nel mentre Domenico Endrizzi spiccava il salto dal ponticello sulla sua vittima, era esso Tamè giunto appena alla metà della scala che mette al ponticello; che retrocesso dalla stessa si avvicinò all'Endrizzi dopo che avea già scagliato il primo sasso e tentò di ritirarlo, ma questi armata la mano di podina gli rispondeva: lasciami stare, che ormai quello chè fatto è fatto. In seguito voleva l'Endrizzi che esso lo aiutasse a portare quell'uomo fino al più prossimo burrone, e gettarlo nel torrente Noce. Egli, il Tamè, si oppose, e si diressero entrambi dopo essere stati sulla strada nuova commerciale alla fontana, passando sotto il portico della casa di Giovanni Endrizzi, e là il compagno si lavò le mani tutte intrise di sangue, dichiarando che le macchie sul gabbano le laverebbe più tardi. L'Endrizzi gl'impose di tacere, e lo minacciò se parlasse. Era egli però disperato del successo, poiché era nato uno sbaglio, mentre credeva esso di offendere Vettore Emer detto Tajo, col quale avea avuto precedenti dispiaceri ed aveagli anzi scaricato nel decorso carnovale una pistola senza però colpirlo. S’era bensì accorto dell'errore, ma siccome s'avea quell'uomo rivoltato, ed aveva allo stesso tagliata colla podina una mano, visto il gran male, inferocito continuò i malitrattamenti. In quanto alle galline trovate presso il cadavere, esso Tamè niente vuole sapere: suppone però che sia stato Domenico Endrizzi ad ammazzarle, onde far credere che quell'uomo sia stato ammazzato perché rubava le galline; e ciò perché l'Endrizzi stesso si era espresso: che egli avrebbe pensato al modo, onde non cadessero su di lui sospetti. Rispetto ai vestiti da esso Tamè indossati la sera del 25 ha confessato che, anziché avere avuta una giacchetta di mezzalana, ne portava una di “mancester” [detto anche mansesto o mansest si trattava del velluto], e che questa, la mattina del 26 dopo ritornato da Tajo, la fece lavare, non perché fosse macchiata di sangue, ma perché altrimenti sporca. Nella perquisizione praticata li 29 marzo all'abitazione di Giovanni Tamè fu in fatto presa in giudiziale custodia una giacchetta di “mancester” nero, la quale, giusta la perizia assunta il primo aprile, appariva da poco lavata, che nonostante ciò portava ancora le tracce sicure di tre macchie di sangue, due cioè nella manica sinistra, ed altra nella fodera della spalla destra, e la cui data coincide a quella del misfatto. L'accusato Tamè è pure descritto di temperamento pronto, facile alle risse ed a maltrattare in specialità poi quando è bevuto, e molti sono i fatti rilevati in proposito, dai quali si può fondatamente ritenere il cattivo suo animo e la inclinazione sua ad offendere altrui. Alla base delle quali cose e in relazione al conchiuso di accusa 19 giugno prossimo passato, sono quindi urgenti gl'indizii per la sussistenza del fatto oggettivo in crimine di omicidio semplice preveduto dai §§ 134 e 135, n.4, del Codice penale generale e della colpabilità soggettiva contro Domenico Endrizzi, cioè quale immediato autore e contro Giovanni Tamè, quale correo, coll'avere prestato la mano nella esecuzione. A base delle quali cose tutte, e di conformità ai conchiusi di codesto inclito i.r. Tribunale circolare succitati, si porta quindi accusa:

a) Contro Domenico Endrizzi, d'anni 23, ammogliato, contadino, senza sostanze, per crimine di omicidio semplice, punibile giusta il § 136, Codice penale generale;

b) Contro Giovanni Tamè, d'anni 30, ammogliato, sagrestano, possidente, per correità nel crimine di omicidio semplice, punibile giusta il § 136 suddetto.


 

L'INTERROGATORIO DEGLI IMPUTATI

 

Domenico Endrizzi

Presidente. Raccontateci dove siete stato e come avete passato il giorno 25 marzo p.p.

Accusato. Fino alle 9 antimeridiane fui a casa; dopo sono andato a Tajo a Messa, poscia ritornai a casa al pranzo; uscito nuovamente andai all'osteria di Giacomo Endrizzi e mi fermai sulla strada a vedere a giuocare alle boccie, e ritornai presto a casa ove mi trattenni fino ad un quarto d'ora di sole (circa le 5); sortito di bel nuovo, feci ritorno a casa ad ora di cena: uscito ancora, sebbene ora oscura, incontrai Giovanni Tamè che m'invitò ad andare in chiesa a cantare un'orazione. Terminata la preghiera, sortii collo stesso Giovanni il quale mi indusse ad andare a bere all'osteria dei fratelli Emer: io non volea andarvi, ed il Giovanni disse: vei (vieni) che la pagherò mi. Accettai, e stetti fino alle 11, alla qual'ora discendemmo; [l’osteria evidentemente si trovava al piano superiore] ed io, avendolo lasciato, me ne andai a casa mia.

Pres. V'era altri oltre il Giovanni Tamè?

Acc. Sì, c'era anche Andrea Endrizzi ed i fratelli Emer.

Pres. Siete sortiti assieme coll'Andrea Endrizzi?

Acc. No, signore. Andrea partì prima ed io sortii con lui, ma ritornai tosto, ed esso non si vide più.

Pres. Quanto vi siete fermati all'osteria dopo che era partito l'Endrizzi?

Acc. Una mezz'ora circa tre quarti d'ora.

Pres. Ditemi, come eravate vestito in quella sera?

Acc. Ero vestito di nuovo: aveva giacchetta (vestito), e calzoni di fustagno [tessuto resistente e morbido, in armatura raso, per lo più in cotone o lana]. (Si rendono ostensibili i calzoni ed il vestito, e l'imputato li riconosce per i proprii).

Pres. Avevate armi con voi?

Acc. Una piccola podina (falcetto) ferma in manico che adopero pel mio mestiere, e col manico di noce. (Viene mostrata e riconosciuta).

Pres. Perché nel vostro primo esame avete negato di avere avuta questa podina?

Acc. Perché la prima volta mi si domandò se aveva armi o potaiuoli adosso, ed io dissi di no; quando invece la seconda volta mi si chiese se avessi avuta la podina, risposi che sì.

Pres. La vostra giacchetta quando fu perquisita, fu trovato ch'era umida. Perchè?

Acc. Sarà forse stato levandomela e ponendola sulla tavola ove sono solito tenere un boccale d'acqua; questo si sarà rovesciato ed avrà bagnata la manica.

Pres. Ma anche i calzoni erano bagnati. Come fù..

Acc. Li ho lavati perché lordi del sangue del cane.

Pres. Di qual cane? Raccontate.

Acc. Quando ritornai a casa dopo essermi fermato a vedere il giuoco di boccie, e che erano circa le due pomeridiane, vidi un cane bianco, con macchie nere, che non era di Tajo, ma forestiero; gli tirai un sasso, lo colpii nella testa e l'uccisi. Levatolo, lo portai fino a casa, e colà intrapresi per levargli la pelle onde adoperarla; ma siccome la aveva tagliata da due o tre parti, e non fui più capace di levargliela, così lo trasportai di là, ed andai a gettarlo per paisa (esca) alla volpe.

Pres. Come avete portato questo cane?

Acc. Per le gambe di dietro.

Pres. La giacchetta si sporcò di sangue?

Acc. No, perché me la aveva levata, e la teneva sulle spalle.

Pres. E dove siete stato a levargli la pelle?

Acc. In un avvolto a piano terra.

Pres. E dove avevate riposta la giacchetta allora?

Acc. In un canto vicina al cane.

Pres. Rimase traccia di sangue sul terreno dell'avvolto?

Acc. Sangue in terra non ne vidi, non posso dir nulla.

Pres. Dunque voi dite d'aver lordati i calzoni in questo modo ed averli dopo lavati. Ma si lordò forse anche la giacchetta o no?

Acc. Ch'abbia veduto io, non si macchiò né di fuori né di dentro.

Pres. A qual'ora siete andato a letto quella sera?

Acc. Subito dopo partito dall'osteria dei fratelli Emer; l'ora non posso precisarla, ma saranno state circa le 11 o le 11 e mezza.

Pres. La casa vostra è molto discosta da quella dei fratelli Emer?

Acc. No, che anzi è molto vicina.

Pres. Avrete sentito che in quella notte tra le 1 e le 1 e mezza venne ucciso certo Gio. Battista Battocletti: dove vi trovavate voi a quell'ora?

Acc. Oh! nel letto certamente.

Pres. Eppure risulterebbe che voi a quell'ora non eravate a casa.

Acc. Eppure era a casa del certo, perché sono partito dall'osteria tra le 11 e le 11 e mezza, ed andai a casa diritto.

Pres. Rosa Endrizzi e suo marito Giacomo raccontano che dopo la mezzanotte han sentito picchiare alla loro porta ed avendo richiesto chi sia, distinsero una voce che rispondeva: son mi; e la Rosa ritiene per certo ch'era la vostra voce, e Giacomo invece quella di Giovanni Tamè.

Acc. Avranno ritenuto, non so che dire: ma io non sono passato in quella notte dalla loro casa, ed essi saranno e sono in un grande errore.

Pres. Vi sarebbe anche Vigilio Tamè, il quale racconta di avervi veduto dopo la mezzanotte....

Acc. Io no certo, possono dire quello che vogliono.

Pres. Racconta che vide un individuo che gridava oh Dio, oh Dio, a correre fortemente, e dietro a lui un secondo, e poco dopo lo raggiungeva un terzo; e dice che essendo esso alla fenestra, e risplendendo la luna, potè veder distintamente questi, e che il secondo (che sarebbe quello che inseguiva) dal passo e dalla statura gli sembrava che foste voi.

Acc. Come? Dice che sono stato io? esso mentisce, è un bugiardo, e non può dir queste cose altroche perché mi odia. A quell'ora, come dissi prima, era in letto, non posso essere stato veduto.

Pres. Avete mai avute dispiacenze con Vigilio Tamè?

Acc. Si; quest'inverno per una rissa; pella quale anzi fui condannato a 15 giorni; Vigilio si arrabbiò senza bisogno, ed andò a chiamare i gendarmi, i quali accorsero, come se qualcuno fosse rimasto ucciso, ed anzi mi legarono. In quell'incontro dissi al Vigilio che quello non era il modo di trattare coi conoscenti e che non faceva bisogno di chiamare aiuto, dacchè io mi sarei quietato.

Pres. Avete voi mai tesi agguati al Vigilio Tamè?

Acc. Questo non è vero. Fui bensì sotto le finestre del Vigilio collo schioppo, ma non già per insidiare alla sua vita, o fargli del male.

Pres. Vigilio Tamè racconta che quando vi ha veduto inseguire l'altro, voleva sortire di casa, ma che non venne fuori perché aveva paura, per l'animosità che gli portavate e perché sapeva che tendevate insidie alla sua vita.

Acc. Queste sono imposture per portarsi fuori.

Pres. Vi sono anche altri testimoni che vi hanno veduto; fra questi Giovanni Endrizzi.

Acc. Non vi fui certamente, perché era in letto.

Pres. Anche l'Endrizzi dice che ha paura di voi perché avete schiaffeggiata sua moglie.

Acc. E' vero che ho dato uno schiaffo alla di lui moglie, ma si fu perché mi domandava 5 Lire austriache, che mi furono imprestate da suo marito.

Pres. E' questo il modo che voi usate per pagare i debiti?

Acc. No; ma quello non era il modo ed il luogo da ripetere simile credito; ora però l'ho pagato.

Pres. Avete avute mai dispiacenze con Vittore Emer?

Acc. Sì. Avvenne che una sera trovandosi dei suonatori, gli domandai di fare una polka ed esso mi rispose di non averne voglia, e che era ora tarda; alche soggiunsi ebbene vei vei (vieni vieni) e trovato colà un altro me ne andai a casa. Poco dopo si udì uno sparo d'arma, e Vittore lo attribuiva a me: per il che essendo venuto in cognizione della cosa dalla sua madre gli rinfacciai questa sua asserzione, ed esso ebbe a dirmi credeva che fossi stato tu.  Ma in realtà io non fui.

Pres. Sapete che abbia portata denunzia per questa schioppettata?

Acc. Denunzia non ne portò.

Pres. Però l'Emer dichiarò di non averla portata per paura che aveva di voi. Tutto questo fa conoscere il vostro cattivo carattere e pericoloso, che tutti vi temevano e sopportavano piuttosto che denunziarvi.

Acc. Eppure io non ho mai fatto niente di male ad alcuno, né ebbi altre questioni che una piccola rissa per la quale sono anche stato condannato.

Pres. Ritornando al fatto principale vi dirò che nella casa Martini fu ritrovato insanguinato il poggiuolo, si rinvenne un cappello nel cesso, e sul letamaio giaceva un cadavere immerso nel proprio sangue, contornato di grossi sassi, e vicino all'interfetto delle galline una strozzata, e l'altra sbranata, e sparse delle piume sul terreno, ed al tutto si deve dedurre che lo scontro sia avvenuto sul poggiuolo.

Acc. Sarà tutto...io non so che dire...io non c'entro.

Pres. Sembrerebbe che l'aggressore dopo ferito, l'avesse gettato dal poggiuolo, e terminato di uccidere coi sassi.

Acc. Sarà stato, ma io non so nulla.

Pres. Fu ritrovato inoltre rotto l'uscio del pollaio, e sembrerebbe che gli autori dell'omicidio lo avessero fatto, onde divergere le traccie e far sospettare che l'interfetto fosse andato per rubare le galline, e fosse stato sorpreso ed ucciso dal padrone.

Acc. Sarà tutto, ma io non so nulla.

Pres. Dai testimonii, ed in ispecie da Vigilio Tamè fu detto che il forestiero che fu veduto correre alla casa Martini corrispondeva all'interfetto Battocletti tanto pella statura quanto pei vestiti, e che poterono distinguere bene perché era plenilunio. Dice di più che potrebbe quasi giurare che il primo che lo inseguiva eravate voi. Anche l'Endrizzi conferma.

Acc. Sono tutte bugie. Endrizzi è in errore; sarà forse stato lui stesso; oppure racconta queste cose perché mi odia e gode trarmi in questi imbrogli.

Pres. Dalla perizia risulta che vi deve essere stato un forte dimenamento, e che quindi i vestiti dovevano essere molto insanguinati: si rilevò che il vostro vestito fu fatto lavare, quantunque fosse nuovo, e lo aveste indossato in quel giorno per la prima volta, per cui non doveva averne di bisogno; sebbene lavato si riscontrarono ancora delle macchie di sangue; queste sono traccie parlanti contro di voi.

Acc. Ma i calzoni si sono sporcati in causa del cane, e la giacchetta non fu lavata, ma si bagnò appoggiandola sulla tavola.

Pres. La podina era insanguinata nel manico, e questo si spiega perché fu adoperata contro un individuo che stava in piedi, e non per torre la pelle ad un cane morto, e che stava in terra.

Acc. L’avrò insanguinata nel manico perché avea le mani lorde di sangue avendo tagliato da tre a quattro parti il cane per cui non potei più levargli la pelle.

Pres. Il fatto sta che la storia del cane non può essere creduta: nessuno ha veduto quel cane; fu esaminato l'avvolto, e non si scontrarono traccie di sangue: si cercò nei dintorni e non fu ritrovato alcun avanzo di quel cane. I periti hanno dichiarato che i calzoni non si potevano lordare nella parte di dietro per levare la pelle del cane; anzi hanno esclusa la possibilità.

Acc. Ella sa benissimo che quando si hanno le mani sporche si si può sporcare dappertutto. E la circostanza poi di non aver ritrovate traccie di sangue nell'avvolto, e del cane ove lo gettai, se mi fosse stata contestata subito l'avrei potuta confutare, ed indicare i luoghi precisi.

Pres. La giacchetta non fu soltanto bagnata con acqua dal tavolo, come voi dite, ma lavata perché altrimenti non avrebbe potuto conservare così a lungo l'umidità. Ciò dimostra ch'era macchiata, e che cercaste di sottrarre le traccie del crimine; per di più ad onta che fosse lavata, i periti vi riscontrarono macchie di sangue.

Acc. Ritengo che io non l'ho macchiata né ho veduto che sia insanguinata e stia sicuro che non venne lavata.

Pres. Luigi Inama, [non so chi fosse, probabilmente un Fogia figlio di Giovanni Domenico] e Romedio Emer [era il figlio minore di Romedio e fratello di Pietro e Giovanni] deposero «il dopo «pranzo quando vidi Domenico Endrizzi era senza giacchetta, con «calzoni nuovi; non ho veduto che avesse macchie di sangue e li ritenni per nuovi pella qualità della stoffa, lucidità ec. (Si mostrano i calzoni all'imputato che li riconosce). Romedio Emer dice di avervi veduto verso le 4 e mezza con calzoni nuovi e netti ma che non scorse le macchie che presentavano in quel momento.

Acc. Se fosse stato che queste macchie si avessero potute vedere, le avrebbe vedute anche il sig. pretore, allorchè le esaminò, ma non v'erano.

Pres. Dove avevate riposta la podina?

Acc. La mattina del 26, quando incominciai a lavorare, la presi su da saccoccia, e poscia l'ho riposta nel mio armadio.

Pres. Come fu poi che la podina non fu trovata nella prima perquisizione e venne consegnata il giorno 29 da vostra madre, dietro ricerca della giustizia?

Acc. Ma io l'ho lasciata a casa.

Pres. Vivete forse separato dalla madre?

Acc. Sì, in una casa vicina.

Pres. Ma nella prima perquisizione non furono ritrovati neppure i calzoni.

Acc. Questo non è vero; anzi furono esaminati dal pretore assieme col Capo-comune, ed erano uniti colla giacchetta, la qual ultima fu presa, perché ancor umida.

Pres. Questa è una falsità: i calzoni furono rinvenuti nella seconda perquisizione, e sembra anzi che anche i vostri attinenti [parenti] cercassero di allontanare le traccie e di nasconderli; perchè, quando venne la Commissione, vostra madre assieme a vostra moglie furon vedute dal servo che correvano verso casa, e per uno scambio di chiavi fu impedita di entrare; vostra madre gridava: per le viscere de Cristo lasseme andar a sconder le braghe de me fiol Dominico che le è macciade de sangue. Il servo d'Ufficio le impedì di entrare, e così furono ritrovati i calzoni.

Acc. Mia madre può aver detto quello che vuole, ma io non so niente, perché non c'era. Con queste parole forse la madre voleva alludere alle macchie di sangue che mi aveva fatte col cane.

Il sig. Presidente dà lettura dell'esame del servo d'Ufficio Giacinto Bais, il quale depone la cosa come fu sopra esposta dallo stesso signor Presidente; e legge del pari gli esami di Marianna Mendini, [Forse una zia?] dai quali risultano i timori esternati dal Domenico di venire incolpato ed arrestato, i quali timori esso imputato esternava alla propria madre Teresa, e venivano ripetuti al testimonio dall'avo materno.

Acc. Mio nonno avrà capito malamente, ma io non feci mai queste parole, né ebbi paura di essere arrestato.

Pres. Vi sono degli altri che depongono che avevate timore di essere arrestato: chi è innocente non ha paura.

Acc. Ed io non aveva paura: diceva soltanto che, dopo aver sentito l'accaduto di quella notte, mi rincresceva di essere stato fuori tanto tardo: ed ho detto: vederè che i me arresta anca mi.

Pres. Ma voi avete esternato ad Eugenio Zadra che avevate paura di essere arrestato.

Acc. E’ vero, ma perché era stato fuori di notte.

Pres. Il vostro aspetto era tale, dice il Zadra, che tanto esso, quanto il suo garzone conchiusero che foste voi l'autore del fatto.

Acc. Ma! Perché questi fanno presto a fare simili giudizii.

Pres. E dicono che avevate perfino le lagrime?

Acc. Fu perché mi diedero una presa di tabacco fino di contrabbando, mentre io sono avvezzo a tirare tabacco d'appalto.

Pres. Voi possedevate la podina che i periti hanno dichiarata attissima a dinferire quelle ferite.

Acc. Questo è vero, ma vi sono molte podine simili.

Pres. Voi avevate l'istrumento adatto, era festa, e non vi era bisogno di portarlo.

Acc. Ma io l'aveva perché sono avvezzo a portarla sempre.

Pres. Voi eravate sul luogo, quando fu commesso il fatto.

Acc. Non è vero.

Pres. Furon riscontrate macchie di sangue sui vostri calzoni, e sulla vostra giacchetta, e siete smentito nel modo col quale vorreste avervele fatte. Voi avete cercato di distrugger le traccie del delitto.

Acc. Vorrebbe ella che sortissi di casa con abiti macchiati?

Pres. Che vi fosse l'intenzione nell'autore di ammazzare il Battocletti, risulta dal numero delle ferite, dal modo col quale furono inflitte e dalle qualità loro, e più di tutto lo mostrano i sassi che furono gettati sopra lui (vengono dati ad ispezione due gran sassi lordi di sangue).

Acc. Io non so che dire, ma non c'entro.

Pres. Oltre a tutto questo, e dalle risultanze processuali, vi è la deposizione di Giovanni Tamè vostro compagno, il quale dice che usciti alle 11 e mezza dall'osteria dei fratelli Emer siete andati girovagando assieme per più di un'ora...

Acc. Io no.

Pres. Continua dicendo che egli si era fermato per un bisogno corporale, nel qual mentre sopraggiunse un forestiere, al quale, dopo chè fu passato avanti a voi, voi gli diceste: Ah te ghe sei chi (qui) can dala madonna, per cui egli tantosto si mise in fuga, ed attraversando il prato andò a fermarsi alla casa Martini, mentre voi lo inseguivate, e lo raggiungeste; dice che egli vi corse dietro coi calzoni in mano, e che quando vi raggiunse, voi vi trovavate alle prese col forestiero, e che vi fermò due volte, ma che era troppo tardo mentre quello era già spirante.

Acc. Queste sono tutte imposture, tutte cose che si pensa il Giovanni Tamè. Non è vero niente di tutto quello dice, e sarà forse stato lui ad ammazzarlo, e per iscusarsi dà la colpa a me. Esso sarà anche stato, ed avrà fatto il male, ma io no, perché siamo partiti assieme alle 11 e mezza dall'osteria, io sono andato a casa, ed esso sarà andato dove avrà voluto. Io non sono stato alla casa Martini, sul luogo del delitto, e non sono stato da quell'ora, fuori del paese.

Pres. Ma voi vedete che oltre al Giovanni Tamè tutti gli altri parlano contro di voi. Oltre a tutto è sospetta l'indole vostra, ed il vostro carattere. Voi siete descritto come uomo fiero che incute timore, un attaccabrighe, vi furono molti testimonii anche di vicini paesi che soffrirono e tacquero per non avere dispiaceri e perciò non fecero mai rapporti.

Acc. Non è vero, e se non hanno fatto rapporti è perché non ho mai fatto male ad alcuno.

Pubblico Ministero. Il Giovanni Tamè dice che quando siete partiti dal cortile Martini non erano state ammazzate le galline, per cui sembrerebbe che voi lo abbiate fatto dopo, e dice di più che voi lo minacciaste se avesse a parlare.

Acc. Sono tutte imposture; sarà stato lui a commettere il fatto e se la giustizia vorrà esaminare troverà che fu lui.

 

Giovanni Tamè

Presidente. Come avete passato il giorno 25 p.p. marzo; ove siete stato, con chi, fino a qual'ora e quando siete andato in letto?

Accusato. Quel giorno lo passai con diversi amici fino alla sera, poi andai in chiesa a recitare il Rosario ed una orazioncella perché era la Madonna; sortito di chiesa andai all'osteria dei fratelli Emer assieme ad Andrea Endrizzi e Domenico Endrizzi. Colà mi fermai fino ad ora tarda e giudicai che saranno state circa le 12 quando siamo partiti.

Pres. Siete usciti tutti assieme?

Acc. No, Andrea Endrizzi partì prima di noi circa mezz'ora.

Pres. Quando sortì l'Andrea Endrizzi, sapete che sia uscito Domenico Endrizzi con lui?

Acc. Non so, e non mi sono accorto.

Pres. Avete bevuto molto in quella sera?

Acc. Bevemmo molto, ma non da essere ubbriachi.

Pres. Quanto avrete bevuto?

Acc. Quanto non so; e non ho memoria.

Pres. Domenico Endrizzi ha bevuto più di voialtri?

Acc. Sì, era più bevuto di me, ma non ubbriaco.

Pres. Che cosa avete fatto, usciti dall'osteria?

Acc. Siamo andati all'osteria del Giacomo Endrizzi per bevere un caffè, ma era chiusa.

Pres. Avete chiamato l'Endrizzi perché vi aprisse?

Acc. Non mi ricordo d'avere chiamato, e neppure il Domenico Endrizzi; ma non posso dire.

Pres. Poi che avete fatto?

Acc. Siamo stati fuori circa un’ora discorrendo degli affari suoi e dei suoi lavori, e poi successe il fatto.

Pres. Raccontateci il fatto, perché questi signori non sanno nulla.

Acc. Io m'era fermato per un bisogno corporale nella posizione della svolta della nuova strada di Tajo, ed intanto il Domenico era avanti a me di tre o quattro passi. In questo istante passò di là un forestiere, ed il Domenico gridò contro a questi: Te sei chi ancor, can dala madonna le si mise a farlo correre ed inseguirlo. Veduto questo, presi i calzoni tra le mani, e corsi dietro a loro; ma li vidi soltanto quando fui dirimpetto al cortile Martini, ch'essi si trovavano alle strette sul poggiuolo della casa stessa, e si dimenavano. Saltai là tantosto e montai la scala, ma in questo vidi il Domenico gettare il forestiere dal poggiuolo sul letamaio, e lui lanciarsi dietro, e tantosto dar di piglio a sassi e percuoterlo. Corsi là per difendere il forestiere, ma il Domenico mi allungò un colpo di podina, ed avendo fatto per fermargli le braccia mi disse: lascia stare, quel ch'è fatto è fatto; e diede ancora con un sasso addosso al giacente. (Gli viene mostrato il sasso).

Pres. Vi sembra che fosse questo il sasso che ha adoprato il Domenico?

Acc. Non potrei dire, ma di simile volume al certo.

Pres. Sapete ch’abbia tirati altri sassi oltre questo?

Acc. Non potrei dir nulla in proposito.

Pres. Avete veduto che il Domenico dasse colpi di podina al Battocletti, e che vi fosse del sangue sul poggiuolo?

Acc. Non vidi a dar colpi di podina, né sangue.

Pres. Risplendeva la luna quella notte?

Acc. Sì.

Pres. Quando il Domenico gettò il forestiere dal poggiuolo furono udite delle grida; continuò a gridare anche sul letamaio?

Acc. Dopo che gli gettò quel sasso non si udirono che piccoli lamenti.

Pres. Quanto passò dal momento che Domenico assalì il forestiere sulla strada, al momento che venne consumato il fatto?

Acc. Pochi minuti, pochissimi.

Pres. Che cosa vi disse Domenico dopo il fatto?

Acc. Mi disse che avealo preso in sbaglio, e che credeva che fosse Vittore Emer, e che voleva dargli due pugni, quando il forestiere si voltò ed allora esso si confirmò ancora più che fosse l'Emer, e quando furono sul poggiuolo sentendo che gridava, lo finì perché non accorresse gente.

Pres. Dopo che cosa avete fatto?

Acc. Domenico voleva ch'io l'aiutassi per trasportare di là il morto, ma io non volli farlo, e me ne partii, ed esso mi corse dietro, e siamo andati alla fontana ove esso si lavò. Mi raccomandò silenzio, minacciandomi se parlassi, ed io promisi tacere.

Pres. Sapete che Domenico avesse avuti dei dispiaceri con Vittore Emer?

Acc. So quel tanto che mi raccontò lo stesso Emer, come pure che gli venne sparata una pistolettata.

Pres. Avete veduto che il Domenico avesse il vestito macchiato di sangue?

Acc. Mi pare che avesse una macchia sulla manica, ma non so se di sangue.

Pres. Sul cadavere del Battocletti furono ritrovate molte piume; vicino a lui una gallina senza testa, ed un’altra strozzata: che cosa sapete dire in proposito?

Acc. Non so nulla perché quando siamo partiti dal cortile Martini non era stato toccato il pollaio: quando l'udii raccontare dalla gente credei sia stato il Domenico perché si supponesse che il Battocletti fosse andato per rubare le galline, e sorpreso dal proprietario fosse stato ucciso.

Pres. Perché nel primo vostro costituto avete detto che usciti dall'osteria siete subito andato a casa?

Acc. Perché in quel momento era confuso; inoltre aveva timore perché Domenico m’aveva raccomandato il silenzio.

Pres. Come eravate vestito in quella sera?

Acc. Con calzoni e gilet di mezzalana, e giacchetta di mancester. (Gli vengono mostrati e li riconosce).

Pres. Che cosa avete fatto dopo?

Acc. Separatici, mi avviai a casa, e tosto ritornai per andare in cerca della fascia che m'accorsi di non aver presa quando m'era fermato per un bisogno: intanto Domenico m’attese, ed essendo di ritorno io sono andato a casa, e credo anche Domenico, ma non ho osservato.

Pres. Perché nel vostro esame avete detto che non avevate il vestito?

Acc. Perché l'aveva fatto lavare ed aveva paura che da ciò nascesse un sospetto.

Pres. Perché farlo lavare propriamente nel giorno 26 di mattina?

Acc. Coll'occasione che mia moglie lavava altre robe, la feci lavare, perché molto sporco; lo feci senza malizia, e non aveva alcun timore che ciò mi dovesse pregiudicare.

Pres. Si trovarono nella vostra giacchetta delle macchie ne si sa come vele possiate aver fatte.

Acc. Io non saprei come si fossero fatte, forse....

Pres. Voi non siete accorso a distorre il Domenico dal fatto: tutte queste circostanze fanno nascere dei gravi sospetti a carico vostro.

Acc. Quelle macchie potrebbe essere che le avessi fatte col colore, avendo incolorito pochi di prima un poggiuolo in casa mia.

Pres. I periti hanno dichiarato che non sono macchie di colore.

Acc. Potrebbe essere che mi fossi insanguinato perché era vicino al luogo dove successe il fatto, a due o tre passi; o forse che me le avessi fatte portando una lepre alla caccia, ma io stesso non saprei precisamente come.

Pres. Voi venite descritto per uomo cattivo, discolo, attaccabrighe.

Acc. Non so d'aver fatto male ad alcuno: mi piacciono le compagnie; ecco tutto.

Pubblico Ministero. Quando siete accorso nel cortile Martini vi siete attaccato con Domenico, avete fatti dei movimenti?

Acc. Io soltanto dal poggiuolo lo afferrai una volta per il braccio, e poi lo lasciai andare.

Pub. Min. Nel vostro esame in iscritto avete detto di averlo afferrato due volte pel braccio, ed ora dite d'averlo preso una volta sola: come giustificate questa cosa: l'avete preso due volte od una.

Acc. Questo non mi ricordo.

Pub. Min. A che ora siete andato a casa?

Acc. Sarà stata circa un’ora.

Pub. Min. Eppure vi è da dubitare su questo: vi fu chi sentì ad aprire e chiudere la porta di vostra casa verso le 3 o le 4.

Acc. Può essere, perché un’ora circa prima di giorno vennero da me a cercarmi per del vino.

Pub. Min. Ma di ciò non avete mai fatto cenno nel processo scritto.

Acc. Perché nessuno mi dimandò, e perciò riputava inutile il raccontarlo.

Avv. Ducati. Avete fatto rilevare la circostanza del luogo ove vi siete ritardato pel bisogno corporale?

Acc. Sì.

Pres. (all'altro imputato Domenico). Che cosa avete da dire?

Acc. Sono tutte imposture...forse per salvare sé stesso getta tutta la colpa su me.

 

L'ESAME DEI TESTIMONI

1. Vigilio Tamè

Presidente. Ora dovete essere esaminato non più come accusato ma come testimonio.(Vedi il processo per rapina). Essendo primo cugino di Giovanni Tamè, quantunque abbiate rinunciato nell'esame scritto al beneficio della legge ed abbiate prestato il giuramento e siate stato assunto in qualità di testimonio per l'omicidio, tuttavia dovete essere interpellato se volete approfittare di questo beneficio. Il signor procuratore ed il di lui difensore gli spiegano più dettagliatamente la cosa, e in base a queste spiegazioni dichiara d'approfittare del beneficio di legge.

Pub. Min. Siccome il testimonio nel processo scritto dichiarò d'essere esaminato, così proporrei che si dovesse dar lettura dei suoi esami.

Pres. Lo accordo, riservato però alla fine del dibattimento di far quel calcolo ch'essi signori crederanno sulle deposizioni del processo istruttorio. (Viene data lettura degli esami scritti del testimonio.

Pres. (a Domenico Endrizzi). Cosa ne dite?

Acc. A me non importa niente; so che male non ne feci, e se anche qualcuno mi porta odio e depone contro di me, crederei che la giustizia non ci abbaderà.

Avv. Ducati. Il mio difeso Giovanni Tamè desidererebbe che venisse esaminato il suo Capo-comune Lorenzo Inama.(Viene accordato).

2. Inama Lorenzo

Risultando che anche questo testimonio è cognato di Giovanni Tamè, e che perciò ha diritto di rinunziare, esso approfitta di tale beneficio.

3. Tamè Vittore.

Siccome anche questo è cugino dell'imputato Giovanni Tamè, rinunzia all'esame.

4.Giovanni Endrizzi detto Bagoz.

Depone: la notte dei 25 marzo ho udito dei sussurri, non ricordo bene l'ora, ma dev'essere stato tra l'una e le due, perché era sul secondo sonno: abito sopra un portico che mette alla fontana, ed udii gridare due volte oh Dio! oh Dio! Circa mezz'ora dopo sentii passare due, ed essendo venuto alla fenestra senza aprirla mi parevano Domenico Endrizzi e Giovanni Tamè, ma bene non li distinsi e non posso giurarlo. Essi andavano taciturni alla fontana. Giudicai che fossero loro due, ma non posso assicurarlo perché di notte bisogna vedere da mus a mus (da faccia a faccia). La mattina mi recai a vedere nel cortile Martini l'interfetto, e giudicai che fosse morto per opera di quei due. Uno aveva in testa un cappello e l'altro era senza. So che li vide anche mio figlio, ma non so se li ha distinti, perché mi disse d'averli veduti da lontano, in prossimità alla casa Martini.

Avv. Ducati. Siete stato presente quando il giorno dopo è venuta la Commissione in paese?

Testimonio. Non fui chiamato.

Pres. Domenico Endrizzi che uomo è fa paura?

Test. Ma...io avrei paura...e non sarei venuto fuori.

Pres. Perché avete paura di lui? Vi ha fatto qualche cosa?

Test. Mia moglie aveva imprestate a costui 5 svanziche [La Svanzica, dal tedesco zwanzig kreuzer "venti kreuzer", era una moneta in argento diffusa nell'Impero austriaco] senza ch'io lo sapessi, ed avendogliele ridomandate, egli la bastonò.

Pres. (al Domenico Endrizzi). Che cosa avete da dire?

Acc. Non vede ch’è un ignorante, uno stupido!..Mi odia perchè, come ha sentito, allungai uno schiaffo a sua moglie.

Pres. Voi usate pagare i debiti con gli schiaffi?

Acc. Le dissi soltanto che quello non era il modo di domandarmi il suo credito, e che pazientasse; ma non volendo essa ascoltare ragione, ed offendendomi io le diedi colla mano un piccolo schiaffo.

5. Endrizzi Nicolo.

Sentii due volte gridare oh Dio! oh Dio! Poscia vidi due che venivano dai prati passar via e non li vidi più. Essi discorrevano piano, ed io mi sono posto dietro l'uscio della mia cucina per vederli meglio. Li sentii passare ancora e lo dissi a mio padre che andò alla fenestra: erano fermi e venivano verso Tajo: poscia li sentii ancora, ma non li vidi venire verso la mia casa. Uno aveva la berretta e l'altro il cappello.

Pres. Che diceva vostro padre? Li ha conosciuti?

Test. Gli pareva, ma non sapeva di certo, che fossero il Domenico Endrizzi ed il Giovanni Tamè.

Pres. (al Domenico Endrizzi). Che cosa dite?

Acc. Io non so che dire.

Pres. (allo stesso). Ma voi in quella sera avevate la berretta?

Acc. Sì.

Pres. (allo stesso). Dunque vedete che suo padre vi ha conosciuto?

Acc. Che suo padre dica quello che vuole, è un ignorante; io non sono stato.

6. Emer Pietro.

Nel giorno 25 marzo furono a casa mia a bere Andrea Endrizzi, Domenico Endrizzi e Giovanni Tamè: bevettero quattro mosse di vino [Una mossa corrispondeva a 1,414 litri per fare una mossa ci volevano 2 frachele]: erano riscaldati tanto al principio quanto alla fine, ma non ubbriachi. Andrea Endrizzi partì un'ora prima degli altri, circa alle 10. Non vi fu nessun alterco, ed il mio vino è leggiero. Del resto io nulla vidi; non so se Domenico Endrizzi avesse arma e non sentii nulla: con Andrea non so che sieno state fatte parole. Appena essi partirono, sono andato a letto e non sentii sussurri, lamenti od altro. Nell'uscire non dissero di andare a casa, anzi non dissero niente. La mattina alle sei sentii il caso; fui sul luogo, e parlai con Domenico Endrizzi, cui vidi andare a lavorare, e gli dissi: hanno fatto una bella cosa quelli di ieri sera!, ed esso mi rispose che gli rincresceva di essere stato fuori a quell'ora, perché se fosse andato in letto non sospetterebbero, e così faranno dei sospetti a suo carico. Non posso dire come fossero vestiti il Domenico Endrizzi ed il Giovanni Tamè, e non rimarcai nei loro vestiti macchie di sangue. Quando uscì l'Andrea, gli andò dietro anche il Domenico, e stette fuori dai 7 agli 8 minuti e poscia ritornò, ma non ho udito che gli abbia dirette parole.

Pres (a Domenico Endrizzi). Sentite? Anche al testimonio avete detto che avevate timore che sorgessero dei sospetti a carico vostro?

Acc. L'avrò forse anche detto, ma la sa bene, si fa tanto presto ad andare negli imbrogli...!

Avv. Ducati (al testimonio). Colla Commissione vi fu vostro fratello: sapete che avessero esaminato il luogo ove disse d'essersi fermato la sera Giovanni Tamè, e sapete che là sia stato ritrovato niente?

Test. Mi si disse che furono ritrovati degli escrementi.

Pres. (al test.) Sapete che in gennaio portasse Giovanni Tamè una lepre a Trento?

Test. Sì, siamo venuti assieme, e la teneva in una sporta sulle spalle, ma non so se sanguinasse.

7. Zadra Eugenio.

La mattina dei 26, avendo sentito il fatto, mi trovava a lavorare col mio garzone Bugnoni Giacomo, quando affacciatomi alla fenestra vidi passare Domenico Endrizzi e gli dissi: s ei stato tu ad ammazzare il forestiere? e lo invitai a salire da me per raccontarmi il fatto, che gli avrei data una presa di tabacco. Venuto, mi diceva che aveva timore di venir arrestato, perché quella notte era stato fuori, e che pagherebbe un napoleon d'oro [Il marengo, o napoleone, è una moneta d'oro del valore di 20 franchi coniata nel 1801 dalla Repubblica Subalpina per celebrare la vittoria di Napoleone Bonaparte contro gli austriaci il 14 giugno 1800] a non essere stato fuori di casa: nel dirmi questo aveva gli occhi rossi, ed era come convulso ed agitato. Si sarà trattenuto un 10 minuti, e dopo partito abbiamo detto col mio garzone, che se fossimo giudici lo condanneressimo, e che era sicuramente stato lui a commettere quel delitto.

Pres.( a Domenico Endrizzi) Che avete da osservare?

Acc. (al test.) Perché dite che se foste giudice mi condannereste?

Test. Ho detto che aveva un convincimento tale, perché il vostro contegno mi era sospetto.

Acc. Aveva gli occhi rossi perché mi avevate dato del tabacco buono, e da me che non sono avvezzo fa l'effetto di lagrimare.

Avvocato Ducati. Avete sentito che la Commissione si sia recata sul luogo ove si era fermato Giovanni Tamè, e che abbia ritrovato qualche cosa?

Acc. Non sentii niente.

8. Bugnoni Giacomo.

(Si dà lettura del suo esame che è del tutto conforme a quello del Zadra). Pres.(all'Endrizzi) Sentite che anche questo ha deposto che voi avevate dei timori, eravate agitato, ed avreste dato un marenghino per non essere stato fuori quella notte?

Acc. Forse le avrò anche dette quelle parole, ma non era agitato; soltanto che a sentire un simile caso non si può star sul so esser (rimanersene indifferenti); e le lagrime erano provenienti dal tabacco.

9. Endrizzi Andrea.

La sera del 25 marzo fui a Dermulo all'osteria di Caliari [soprannome di Pietro e Giovanni Emer] con Giovanni Tamè; abbiamo bevuto una mossa divino, e poi venne Domenico Endrizzi. Fui là fino all'ora del rosario, e poscia vi siamo ritornati nuovamente. Io mi fermai fino circa le 10 e mezza. Feci per uscire, ed il Minico mi prese per un braccio, e mi disse: Vieni che andiamo a cantare. Non volli assecondarlo, e partii. Era sulla porta, e di nuovo mi fece la proposta di andare a cantare; non volli, e così terminò. Me ne andai, ed allora egli diede un'uzzenada (un grido di u-u-ui), e non lo salutai. Non dirò che egli mi faccia paura, ma essendo forestiero di Tajo, usai prudenza, e camminai forte per arrivare a casa. Con Domenico non ebbi mai dispiacenze.

Pres.(a Domenico Endrizzi). Che cosa avete da rimarcare?

Acc. Uscii assieme è vero, ma non feci espressioni, almeno non credo di averle fatte, ed anzi mi pare impossibile.

10. Endrizzi Rosa

La notte del 25 marzo sentii a battere ai balconi della stanza (non posso dire che ora fosse) ed uno chiamare: “Giacomo”. Io risposi: “Non c'è per nessuno”. Mi pareva dalla voce che fosse Domenico Endrizzi; a mio marito invece pareva fosse Giovanni Tamè. Non ricordo che siano state fatte prepotenze in casa mia da que due; e con mio marito ci fu qualche piccola differenza, ma non mi ricordo quando. Adesso non ricordo con precisione che volessero a tutto costo ch'io loro aprissi, ma la prima volta che fui esaminata ho detta la verità. Ritengo che la mezzanotte era passata, ma non lo ricordo con precisione.

11. Endrizzi Giacomo

Depone come la moglie Rosa, dicendo che riteneva fosse Giovanni Tamè quello che chiamava; dice di non aver sentiti altri sussurri in quella notte, che la sua casa è in parte opposta a quella del Martini, e che soltanto la mattina seppe l'accaduto.

Pres. (a Domenico Endrizzi). Che ne dite?

Acc. Non so che dire: avranno sentito picchiare, ma io non sono stato: che la Endrizzi ritenga quello che vuole, io non ci fui.

Pres. (a Giovanni Tamè). Che ne dite voi?

Acc. Io non ho memoria che né io, né Domenico avessimo picchiato. (Si leggono gli esami scritti di alcuni testimonii che concorrono a confermare le circostanze deposte dagli altri di già esaminati, e precisamente di Giovanni Emer, di Vittore Emer, di Vettore Chistè.)

Si prosegue la lettura degli atti relativi all'omicidio:

Estratto del rilievo della località ove fu commesso il crimine, della perizia medica sul cadavere, sulle ferite, e sui vestiti.

Sul letamaio si vedeva supino un uomo col capo verso la scala, ed i piedi al muro di cinta: la mano destra appoggiata al ventre, la sinistra ad un pezzo d'asse infissa nel suolo quasi per aggrapparsi, entrambe intrise di sangue, e così la faccia da non distinguere quasi i lineamenti. Sulla faccia, e tra i cappelli delle piume di gallina, e dall'orecchio destro una ferita con distaccamento dell'orecchio stesso: il pollice della mano destra presenta una ferita lacero contusa. Ai piedi si vedeva un sasso di forma irregolare del peso di circa libbre 8, [circa 2,5 Kg] intriso di sangue, e con attaccativi pochi capelli: vicino alla mano sinistra 4 sassi di dimensione diversa del peso dalle libbre l alle 4: anche il suolo circostante tutto sparso di sangue. Un passo distante dal cadavere una gallina senza testa, ed altra ad 8 passi dal ventre della quale sortono le budella e l'ovaia. Mancava un’asse costituente lo sprangato; qua e là pel ponticello e pelle spranghe macchie di sangue. Inoltre carte, ed altro appartenente all'interfetto.

Le ferite riscontrate sul cadavere furono:

l. Una ferita lacero-contusa alla regione frontale destra.

2. Una ferita alla parte frontale superiore destra interessante in parte la parte cappelluta.

3. Una ferita alla regione media inferiore dell'osso parietale destro.

4. Una ferita dieci linee sotto questa ed una e mezza sopra l'orecchio destro.

5. Una ferita interessante il padiglione dell'orecchio destro.

6. Una ferita interessante la parte anteriore dell'orecchio.

7. Tutta la guancia destra offre una enfiagione con delle macchie qua e là sparse echimosate.

8. Una ferita alla regione occipitale destra.

9. Una ferita alla regione radio-carpica destra.

10. Una ferita lacero-contusa al dorso del pollice destro alla regione articolare

Assunta la descrizione, i periti dichiararono essere il Battocletti assolutamente morto, oltrecchè per i segni soprarilevati, anche perché essendo tagliata l'arteria ulnale destra, e non sortendo più sangue si deve assolutamente conchiudere la morte. Fatta la sezione cadaverica ad analoghe domande dichiararono i periti: Prese isolatamente le ferite ai numeri 2, 3, 4, 7 e 10, sono di natura leggiere, perché sarebbero state guarite entro 10 giorni senza conseguenze. Le ferite descritte ai numeri 1, 5 e 6, sono di loro natura grave perché per la guarigione sarebbe necessitato un tempo oltre i 20 giorni. La ferita descritta al numero 8, la giudicarono assolutamente mortale e per la frattura dell'osso del cranio, e per gli stravasi prodotti, e per la violentissima commozione cerebrale, e per l'avvilimento del centro del sistema nervoso paralizzato. La ferita al numero 9, la giudicarono grave con pericolo di vita per l'emorragia che necessariamente doveva succedere in causa del taglio trasversale dell'arteria ulnare, la quale per mancanza di pronto sussidio medico doveva necessariamente riuscire mortale. Le ferite ai numeri 1, 7 e 10 furono prodotte da corpo contundente, e quelle ad 1 e 7 da corpo anche lacerante; quelle ad 1 e 7 con molto grado di forza, quella ad 10 con meno grado di forza. Quelle ad 2, 3, 4, 5, 6 e 9 con istrumento tagliente, presumibilmente con un potaiuolo, o podina, perché alcune di queste presentano una forma angolare; vibrato con molto grado di forza in quanto alle ferite ai numeri 6 e 9, e con minore in quanto alle altre. La ferita 8 è stata prodotta con istrumento contundente lacerante vibrato con grandissimo grado di forza. In quanto al tempo tutte le nominate ferite e contusioni sono state prodotte entro 18 ore, pel motivo che sono ancora cruenti.

III. Tutte le riscontrate ferite sono state prodotte a corpo vivo, perché tutte gemevano sangue, e la contusione perché portava l'enfiagione della guancia destra, e per il stravaso.

IV. Nessuna poteva essere prodotta dal salto del ponticello, perché molte erano prodotte da istrumento tagliente, e perché essendo caduto sul concime non potevano essere prodotte le ferite lacero-contundenti.

V. Giudicano che la causa prossima della morte del Battocletti sia stata la violentissima commozione cerebrale con stravaso, e che questa sia stata cagionata dalla ferita descritta al n. 8; e dichiarano essere stata questa l'unica causa della morte del Battocletti, nulla avendo ravvisato che la abbia potuta produrre nella di lui fisica costituzione, in uno stato particolare dello stesso, od in circostanze estrinseche accidentali.

I .Vestiti di Domenico Endrizzi.

Tanto alla manica destra della giacchetta, come alla sinistra, tanto nella parte superiore che posteriore della manica, come pure al davanti ed anche sulla schiena si ravvisano macchie di sangue. Tutte queste macchie, di cui se ne ravvisa una anche nella saccoccia alla parte interna sinistra, i periti le giudicarono assolutamente macchie di sangue. Furono in parte dilavate superficialmente ed in parte raschiate, ma sono tali ed in tale stato da lasciare indubbiamente decidere che sono macchie sanguigne. Quella alla schiena che dev'essere sfuggita alla lavatura e raschiatura, presenta ancor più manifesta la natura sanguigna, mentre si presenta non già come macchia ma come un rialzo, e mostra una filatura con globuli rossi sanguigni. Nei calzoni si ravvisò un numero innumerabile di macchie rosse tanto al davanti come al di dietro, e così pure una qualche macchia la si vide nelle saccoccie. La podina ferma in manico presenta tanto alla capocchia dei brocconi come anche sul manico internato nel legno delle macchie rosse che vengono ritenute di sangue. Macchie si riscontrano anche sulla camicia di bombace. (Cotone)

II. Vestiti di Giovanni Tamè

La giacchetta di velluto nero la si trova da poco lavata, e vi si riscontrano tre macchie di sangue, due nella manica sinistra, e la terza nella fodera della spalla destra, e viene dichiarata per il colore, per le traccie di protuberanze e per la globulazione macchiata di sangue. Nel gilet e camicia non viene ravvisata macchia.

III. Giudizio dei periti.

La podina viene dichiarata istrumento adattatissimo per produrre tutte le ferite da taglio riscontrate nel Battocletti. Ritengono dalle traccie di sangue che la prima ferita sia stata quella da taglio alla mano destra, perché nessun altra ferita poteva cospergere il suolo di tanto sangue, mentre le altre ferite alla testa, se anche sparsero sangue, questo non poteva cadere in tanta quantità; perché il sangue sarebbe caduto prima nei vestiti, ec. Ritengono che uno solo sia stato quello che inferse tutte le ferite da taglio, perché tutte nella medesima direzione alla parte destra, e nella massima parte anche prodotte con egual grado di forza, e col medesimo istrumento; e quindi da un solo e medesimo possono essere state prodotte anche le contusioni e le ferite lacero-contundenti quando queste abbiano susseguito le ferite da taglio. Per consumare da solo quest'omicidio bastavano nel massimo dai 5 ai 6 minuti primi.

(Si rende ostensibile la giacchetta di Giovanni Tamè)

Pres. (a Giovanni Tamè). Come spieghereste la macchia nell'interno della spalla destra della giacchetta?

Acc. Non posso dir niente.

Pres.(a Domenico Endrizzi). Avete niente da rimarcare?

Acc. I calzoni so di averli macchiati, ed ho sempre detto che fu col cane; ma circa la giacchetta non so nulla: potrebbe darsi che colle mani insanguinate dal cane la avessi toccata e macchiata, ma con precisione non so.

(Si legge la perizia assunta circa il cane).

Risulta da questa essere impossibile assolutamente che col portare un cane nel senso dichiarato da Domenico Endrizzi si potessero verificare tutte le macchie di sangue che si ravvisano sui calzoni; perché se è possibile che possa lo spargimento del sangue del cane aver prodotte le macchie che si ravvisano nel davanti dei calzoni, è impossibile che potessero venire macchiati i calzoni al di dietro, e nella parte interna.

Pres. (all'Endrizzi). Che avete ad osservare?

Acc. In che giorno venne fatto questo rilievo?

Pres. Il 7 aprile.

Acc. Al momento avrei potuto dare una spiegazione, ma adesso non posso dir nulla. Bisognava condurmi sulla faccia del luogo, nell'avvolto, dacchè gli avanzi potrebbero essere stati altrove, ed allora so anch'io che non potevano ritrovare nulla.

Pres. Ma almeno dovevano rimanere le ossa del cane, perché credo che la volpe non mangi che la carne.

Acc. Oh per questo mangiano anche le ossa me lo creda.

(Leggonsi le informazioni e le fedine).

Dalle fedine risulta che Domenico Endrizzi con sentenza 21 maggio 1852, fu condannato dall'i.r. Tribunale di Brescia a 6 mesi di duro carcere per crimine di furto; e con altra sentenza 22 ottobre 1857 dalla Pretura di Cles a 15 giorni di arresto per la contravvenzione del § 411.

A carico di Giovanni Tamè nessuna condanna né incriminazione.

Dalle informazioni comunali di Dermulo, Tajo e Corredo risulta:

a) Che non si conosce uno che, sia per cattiveria di animo, sia per viste d'interesse possa essere capace di togliere la vita ad un uomo, tranne Domenico Endrizzi; giovane che non ha mai ricavati col lavoro sufficienti mezzi per corrispondere ai suoi vizii, che gioca volentieri alle carte, frequenta l'osteria e gira attorno mezze le notti;

b) Che la fama a carico di Domenico Endrizzi suona abbastanza cattiva; non buona, ma però discreta è quella di Giovanni Tamè. Cattiva la condotta del primo, non delle migliori quella secondo: il primo è d'un temperamento pronto, e non così il secondo;

c) Che Giovanni Tamè è un beone, e quando è preso dal vino diventa cocciuto nelle sue opinioni, e pericoloso tanto da esser pronto a menare le mani. Domenico Endrizzi è risoluto nei suoi pensieri, testardo, subito, focoso e pronto a percuotere.

Rossetti Francesco, Maestro presso il quale lavorava Domenico Endrizzi informa nel modo seguente: Lavorò da me per circa un mese, e perché da un mese in qua non gli somministrava lavoro si mostrava in collera con me: le espressioni che faceva quand'era presso di me, erano quelle dell'attaccabrighe e di frequente usciva con minaccie or contro l'uno o contro l'altro, dicendo che non era contento finchè non avesse fatta la pelle a due o tre di Tajo, a costo che gli allungassero la lingua (la qual espressione intesi significasse che lo impiccassero).

Pres (a Domenico Endrizzi). Che cosa dite su queste informazioni? Anche a S. Zeno avreste sfidato, senza essere offeso; si vede l'animo vostro d'attaccabrighe.

Acc. Non ho mai fatto niente a nessuno, non ho mai sfidato. Ma la guardi: fuori della porta erano in due o tre, avrei attaccato con quelli se avessi avuta volontà di sfidare altri, anziché offendere ed attaccare molti.[?]

12. Battocletti Giuditta vedova dell'interfetto.

Pres. A che ora partì vostro marito di casa in quella sera?

Test. Disse che non sapeva neppur lui, ma saranno state verso le 11.

Pres. Che cosa aveva con sè, e per dove era diretto?

Test. Non so quanto avesse, ma poco; ed aveva presa per mangiare il giorno dopo un poca di torta di patate. Era diretto per venire a Trento dal conte Thunn.

Pres. A quanto fate ascendere il vostro danno?

Test. Con duemila fior. Non mi pagano il danno di me e dei miei figliuoli, perché io non ho niente.

Pres.(agli imputati). Che avete da osservare?

L'accusato Endrizzi. Niente, io non ho colpa.

L'accusato Tamè. Ha ragione

Pubb. Min. (a Giovanni Tamè) Perché ha battuto il Michelot alle 4 di mattina del giorno 26 marzo alla vostra porta?

Acc. Perché voleva una mossa divino, ed io glielo ho dato, ed egli tirò dritto.

Pubb. Min. Che cosa nel giorno 26 avete fatto lavare, oltre la giacchetta?

Acc. Un paio di calzoni d'estate, che ho dati contemporaneamente alla giacchetta alla mia moglie.

Pubb. Min. Quanto tempo siete stati nel cortile Martini?

Acc. Non potrei dire di preciso, ma poco tempo; quanto non so.

 

LA REQUISITORIA DEL PROCURATORE

Avuta la parola il procuratore di Stato incominciò:

Il primo fatto è quello dell'interfezione del Battocletti avvenuta il giorno 26 marzo p.p. Costui partì da casa sua circa alle 11, o le 11 e mezzo per venire a Trento, e deve essere arrivato a Dermulo all'una. Ciò si combina colle grida udite in Dermulo, e colle deposizioni del coaccusato Giovanni Tamè. L'infelice Battocletti venne ritrovato cadavere la mattina del 26 marzo, ed il numero delle ferite e la sevizie colla quale furono praticate non lascia alcun dubbio che l'intenzione dell'autore era quella di togliergli la vita, di commettere un omicidio. Si riscontrarono sul corpo dell'estinto sei ferite da taglio, delle quali una letale alla mano destra perché offensiva l'arteria, due altre di natura gravi, e tre ritenute leggiere, tutte date con istrumento incidente. Sul cadavere si riscontrarono tre altre lesioni di carattere grave inflitte con corpo contundente-lacerante, ed una in ispecie che fu dichiarata per sé mortale. Oltre di che appariva che il cadavere fu maltrattato; si ritrovarono dei grossi sassi circondanti lo stesso; il poggiuolo era cosparso di sangue per cui chiaro risulta che l'intenzione dell'autore era quella di portargli la morte, la qual intenzione se non era premeditata dev'essere sopraggiunta; ciocchè costituisce il crimine d'omicidio previsto dai §§ 134 e 135 Cod. pen. Dubbio non havvi alcuno che il Battocletti non sia morto in conseguenza di queste ferite; e ciò è quanto basta per istabilire il fatto in linea oggettiva. Di questo fatto sono imputati Domenico Endrizzi, e Giovanni Tamè. Pel primo le risultanze processuali non lasciarono dubbio che ne sia stato l'autore diretto; ed in prova la presenza sul luogo, l'aver inseguito il Battocletti, l'essere stato precisamente nel cortile Martini, locchè costituisce l'indizio del paragrafo 138, 7, avvalorato dalla deposizione di Giovanni Tamè. Questi non si può dire correo confesso perché non fece alcuna deposizione altro che a carico del compagno. Vigilio Tamè (circa il quale mi riservo più tardo di fare una proposta) depose che ha conosciuto i due che inseguivano il Battocletti, e che Giovanni Tamè andava qualche tratto indietro all'altro: la deposizione di questo testimonio è a ritenersi veritiera perché fatta alcun tempo prima del suo arresto, perché precisa ed in concorrenza con quella di Giovanni Tamè; e perciò si prova e stabilisce che Domenico Endrizzi realmente fu il primo ad inseguire il Battocletti. Un secondo indizio per Domenico Endrizzi lo ravviso nel possesso dell'istrumento atto a portar quelle ferite, e questo strumento sarebbe la podina. I medici lo hanno dichiarato istrumento attissimo a cagionare la ferita alla mano, e lo ritennero anche per le altre. L'imputato stesso poi ammette il possesso di quella podina. Terzo indizio lo desumo dalle vestigia del crimine (paragrafo 138, 9 R.p.p.): innumerevoli devono essere state le macchie di sangue nella persona, delle quali non si sa niente perché andò a lavarsi alla fontana; ma bastano di per sé quelle dei vestiti ritenute tali dalla perizia medica, e quelle rimaste sul manico dell'istrumento sebbene raschiato, e che vennero dagli esperti ritenute di sangue. I suoi calzoni erano tutt'una macchia estesa dal davanti all'indietro, e dev'essere stato un macello quando fu a contatto sul letamaio. Un quarto è quello del 138, 11, perché Domenico Endrizzi distrusse ed allontanò le vestigia del crimine; come sarebbe l'aver fatti lavare i vestiti, e raschiare la podina (coltello a roncola a serramanico). La di lui giacchetta era ancora umida il dopo pranzo del 26, ed egualmente i calzoni, e ciò è risultato indubbiamente dalla perizia. Oltre a questi indizii si hanno le invenzioni e le menzogne introdotte dall'accusato per ingannare od eludere la giustizia, come quella storiella del cane, e di aversi sporcato col levargli la pelle, nella quale venne smentito non essendo stata dagli atti di rilievo praticati in casa e fuori trovata traccia alcuna del cane; e questo costituirebbe l'indizio del paragrafo 281, 1. Passava poi il P.M. ad enumerare le contraddizioni, e le smentite nelle quali è caduto; la negativa del possesso di armi; l'asserzione d'essersi rinchiuso in casa alle 11 o le 11 e mezza, nella quale vien smentito da Giovanni Tamè, da Vigilio Tamè, da Giacomo, e da Nicolò Endrizzi; la capacità personale, l'essere stato punito per reato di sangue, e le informazioni di lui pessime non solo date da Dermulo, ma ben anche da Taio, Corredo, e da moltissimi testimonii; ed a tutto questo quasi per suggello aggiungeva la diretta incolpazione del coaccusato Giovanni Tamè. Accennava inoltre quali circostanze amminicolanti, [da amminìcolo, s. m. Variante letterale di ammennicolo. Con accezione tecnica nel linguaggio giuridico, indizio lieve che, nella prassi procedurale del diritto intermedio, si prendeva in considerazione dal giudice quando venisse a rafforzare altri indizi più forti] la sottrazione dei calzoni che voleva fare la madre al servo d'ufficio; le esternazioni, ed i timori d'arresto espressi dall'imputato ad Eugenio Zadra e Giacomo Bugnoni, e ciò la mattina susseguente il fatto; il suo contegno rimarchevole, e conchiudeva aversi sufficienti indizii onde condannarlo per concorso d'indizii giusta i §§ 279 e 281, r.p.p.

Il secondo imputato è Giovanni Tamè. Quest'accusato narrò di fatto scusando sé stesso, e senza voler avere alcuna imputabilità. Esso narra che seguì l'Endrizzi per curiosità, e che giunse quando Domenico gettava il Battocletti sul letamaio, che tentò riparare e salvarlo, e che avendo fatto per fermarlo, l'Endrizzi lo minacciò colla podina. Questa circostanza pare inverosimile, perché subito dopo spiccato il salto diede di mano ai sassi, e la podina doveva essere di ostacolo per maneggiarli: non però è impossibile perché era un piccolo istrumento, e perciò non è da farsi calcolo di tale circostanza, tanto più che dichiarò d'aver impedito il gettito d'altri sassi. Una contraddizione riscontrasi; che nell'esame primo dichiarò di avere fermato due volte il Domenico Endrizzi, mentre ieridì avrebbe detto che fu una sol volta. Ma siccome fu veritiero col rimanente del racconto non devesi fargli carico di questo.

Enunciava poi il P.M. le altre circostanze per stabilire la prova per indizii: quale quella d'avere inseguito gli altri, e la sua presenza sul luogo che costituirebbero gli indizii del §.138.7; l'aversi riscontrate vestigia del crimine, delle macchie sulla giacchetta, due alle maniche, ed una interna; la lavatura delle stesse, indizio giusta il § 138.11, tendente a mostrare l'intenzione d'allontanare i sospetti; la smentita d'essere andato a casa alle 11 e mezza; l'essere negativo sull'aver indossata la giacchetta ritrovata lorda di sangue; e l'avere voluto far credere che quelle macchie se le avesse fatte pel colore dato allo sprangato del fornello, mentre al dibattimento vorrebbe che fosse stato con una lepre che portò a Trento, locchè verificandosi, sarebbe stato sulla schiena, e non internamente del vestito: e terminava col dire che s'avrebbe un numero d'indizii anche senza riguardo al temperamento di lui di attaccabrighe, specialmente se bevuto, come in quella sera, per stabilire la prova composta del § 281.2. Per di più accennava le circostanze dell'ora tarda, la permanenza sulla strada senza motivo, il non aver riparato, od almeno impedito, come più forte, che si commettesse il crimine; l'improbabilità che il Domenico Endrizzi tenesse in mano la podina, e lo minacciasse; ed infine la variazione che vorrebbe averlo trattenuto due volte, mentre non fu che una sola. Poneva quindi il dilemma che o volesse salvare, ovvero far esso pure atti di violenza; e conchiudeva dicendo che si avrebbe la prova composta dell'intervento attivo.

Tuttavia, proseguiva, il di lui racconto ha l'impronta della verità: non si tratta d'un omicidio proditorio, si tratta quindi d'un omicidio repentino quasi accidentale: non ammettendo un accordo fra gli accusati, non si può imputarlo che dei fatti successi nel cortile: ma se si è portato quando era stato gettato il sasso, non si potrebbe più parlare di correità ma d'intervenzione, secondo il § 5. Ma non potrei sostenere neppur questo perché mancherebbe pel § 279 il nesso stretto degli indizii, e ad onta che si sieno verificati molti degli stessi, tuttavia io non potrei proporre che un giudizio di sospensione, ma non mai di innocenza pei dubbi che rimarrebbero della possibilità del contrario.

Ritengo invece che si abbia fatte quelle macchie di sangue prestando mano al Domenico Endrizzi per trasportare il cadavere. Giovanni Tamè dice che il compagno voleva lo aiutasse a trasportarlo al Noce; dopo sortirono, ma sarebbero partiti dopo una mezz'ora: il fatto fu compiuto in 5 minuti, repentinamente, giusta il § 268, e per quello delle galline, ad oggetto di distrarre le investigazioni, deve aver durato di più.

Quanto al Domenico Endrizzi la prova è connessa al fatto stesso. Quanto a Giovanni Tamè si tratterebbe d'aiuto prestato al crimine, da punirsi a mente del § 215, Codice penale. Esso fu sul luogo, si rinvennero traccie del fatto, non è giustificata la fermata, e Domenico Endrizzi, allontanato una volta, non ritengo sia più ritornato sul luogo: Vigilio Tamè avrebbe sentiti dei colpi prima che ritornassero, ed in ciò non è smentito: perciò subordinatamente per Giovanni Tamè proporrei che venisse condannato per aiuto prestato, giusta il § 215.

Passava poi il P.M. al secondo fatto cioè alla rapina…….[vedi la rapina ai danni di Giovanni Salazer]

Ciò premesso,vengo a parlare della pena. Per Domenico Endrizzi, ritenuta sussistere la prova del crimine previsto dal paragrafo 135, n. 4, e della contravvenzione del § 468, dovrebb'essere punito per omicidio colla pena di morte, giusta il § 136. Atteso però il disposto del § 284, Regolamento di procedura penale, non si può far luogo che alla pena del carcere nella misura ivi determinata. In proposito ravviserei come circostanza mitigante la trascurata educazione, il fatto avvenuto repentinamente ed il danno che ne risentirebbe l'innocente di lui familia. Come aggravanti invece il danno dell'interfetto, la sevizie colla quale fu perpetrato il misfatto e l'inganno nel quale voleva trarre i giudici con false asserzioni e contraddizioni. Tuttavia, trattandosi che non ha che 23 anni, e che si approssima all'età dalla legge contemplata dei 20 anni, crederei non potersi condannare né alla pena del carcere in vita, né a quella di 20 anni, ma dei 18.

Per Giovanni Tamè, la legge stabilisce pel § 215 la pena dai 6 mesi ad un anno: circostanze mitiganti non ne ravviso, e come aggravante riterrei l'avere assistito un malfattore. Per tutto ciò vi domando o giudici, che:

1. Domenico Endrizzi venga ritenuto reo del crimine di omicidio previsto dai §§ 134 e 135, n. 4, e della contravvenzione del § 468, e condannato al carcere duro per la durata d'anni 18.

2. Giovanni Tamè venga sciolto dall'imputazione di correità nel crimine suddetto e ciò per insufficienza di prove; ….[vedi la rapina ai danni di Giovanni Sallazer] e sia condannato invece per aiuto prestato ad un malfattore, giusta il § 215, ad 8 mesi di carcere.

3. ……

Avuta la parola l'avvocato dott. Dordi, difensore di Domenico Endrizzi, cominciò egli coll'osservare che quando si tratta di crimini i quali, come nel caso presente, portano l'impronta di una enormità quasi incredibile, la generale indignazione che si manifesta da tutte le parti precorre, per così dire, l'assunto della giustizia punitiva, cercando pure che il misfatto non abbia ad essere impunito. E questo generale desiderio che la società offesa dal delitto venga vendicata si manifesta ancora più altamente quando a carico di qualche individuo già sfavorevolmente conosciuto insorgano dei sospetti; e se questi nel corso del processo si fanno più forti, la pubblica voce dichiara ormai colpevole l'accusato, ed il convincimento della sua reità si trasfonde anche prima della sentenza in tutti coloro, che hanno avuto occasione di assistere allo sviluppo delle prove che si fanno valere a carico dell'imputato. Per altro i giudici che sono chiamati a decidere secondo le norme della legge, devono spogliarsi da ogni idea preconcetta, e non possono ritenere come colpevole se non colui contro il quale si verificano quelle determinate prove che sono appunto dalla legge stabilite. Eguale è l'obbligo del difensore. Anche questi deve prescindere dall'intima persuasione che egli potesse essersi fatta per indagare unicamente se a favore dell'imputato sorgano circostanze che dimostrino l'insussistenza od almeno mettano in dubbio la pienezza della prova; e se anche le sue osservazioni potessero all'orecchio d'alcuno suonare come cavilli, egli non può per questo ometterle perché esse forse potrebbero nel senso della legge essere giovevoli all'accusato, e ad ogni modo servono a mettere sempre più in chiaro la verità, locchè è il vero ed unico scopo della difesa.

Passando dopo di ciò in rivista i singoli indizii elevati a carico dell'imputato, e cominciando da quello che a primo aspetto sembra il più imponente, cioè all'accusa diretta datagli da Giovanni Tamè, accennava il sig. difensore che questa non poteva considerarsi come di alcun valore perché non partendo da un correo confesso, doveva riguardarsi unicamente come una propria difesa del coacusato Tamè, ed era quindi spoglia di qualsiasi requisito voluto dalla legge per una valida testimonianza.

Caduto quest'indizio, riteneva il sig. difensore non potersi avere per provato neppure quello della presenza sul luogo. I testimonii che deposero in argomento avrebbero bensì, quantunque non tutti con esattezza, veduto o sentito l'Endrizzi in vicinanza al luogo del misfatto, ma non lo avrebbero però veduto nel luogo stesso, circostanza che è espressamente voluta dalla legge, per costituire l'indizio del § 138 n.7. Quanto poi alla più importante deposizione, che sarebbe stata quella di Vigilio Tamè, osservava il difensore, che oltre ad essere incerta, dacchè nell'esame scritto costui era caduto in qualche contraddizione sulla persona che inseguiva il fuggitivo Battocletti, essa non poteva neppure essere valutata dal momento che il Tamè al dibattimento non volle essere esaminato, e quindi non confermò la sua deposizione nulla importando se anche il benefizio della legge gli competeva soltanto a riguardo di Giovanni Tamè, perchè il § 269 vuole senza distinzione che la deposizione del testimonio debba essere confermata al dibattimento.

Nè può dirsi raggiunto l'altro indizio accampato dall'accusa del possesso dello stromento, col quale fu commesso il misfatto. I periti dichiararono bensì che l'arma rinvenuta all'Endrizzi era attissima a produrre le ferite portate dal Battocletti: la legge però non si accontenta di questa e vuole che lo stromento debba apparire quel medesimo con cui il crimine fu commesso, locchè tanto meno poteva dirsi riguardo all'Endrizzi, mentre trattavasi d'un’arma affatto ordinaria, e posseduta da molti.

D'altronde l'Endrizzi è per professione lavoratore di fruste, e come tale abbisogna di simili istrumenti, cosicchè non può dirsi verificata neppure l'altra circostanza, cui accenna il paragrafo A 38 n. 1.

Circa l'indizio desunto dalle traccie nel sangue rinvenute sui vestiti dell'Endrizzi ed ai di lui sforzi per occultarle, il sig. difensore confessava di non potersi che richiamare alle discolpe adotte dall'accusato medesimo. Le quali, se anche non sono molto verisimili, non sono però neppure impossibili, e di rilievi assunti in proposito se anche non hanno giustificate le sue asserzioni, non ne hanno però dimostrata la falsità; e non è del tutto fuori di ragione l'osservazione fatta dall'accusato che se questi rilievi fossero stati praticati sul momento anziché molti giorni dopo essi avrebbero condotto ad altri risultati. Non credeva il sig. difensore doversi fermare sulle deposizioni fatte da alcuni attinenti dell'accusato e sulle dichiarazioni che egli stesso avrebbe fatte ad alcuni testimonii nel giorno successivo: le prime riguardano esternazioni e timori de' suoi parenti, nei quali egli non ebbe alcuna parte; le seconde sono in parte così strane da non meritare credenza, ed in parte giustificate dalla circostanza che l'Endrizzi, il quale sapeva benissimo d'essere già inviso alle superiorità, doveva non senza ragione temere che sopra di lui, che aveva girovagato fino a tarda notte, potesse cadere qualche sospetto.

Riassumendo poi in generale i risultati delle deposizioni testimoniali, il difensore si richiamava alle sue osservazioni preliminari: tutti i testimonii introdotti avevano avuto qualche dispiacenza o qualche conflitto coll'accusato; tutti in sostanza, anziché un fatto certo, esprimevano una loro opinione individuale, cioè che nessun altri in quei dintorni avrebbe potuto essere capace di commettere così enorme delitto; la quale opinione se anche era forse giustificata dalle qualità personali dell'Endrizzi non poteva però riguardarsi come un elemento di prova. A completare il numero degli indizii invocava il pubblico Ministero anche gli estremi del § 281. Il difensore però ne metteva in forse l'esistenza perché se anche l'Endrizzi nel lungo suo processo, e sotto la pressione di un giudice inquirente, il quale voleva indurlo ad una confessione, non si mantenne sempre coerente nei suoi deposti, egli però non cadde in sostanziali contraddizioni; e se non fu provata la verità di ciò che egli disse, non fu neppure provato il contrario, e quanto alla di lui personale capacità, quantunque egli sia sfavorevolmente descritto, non abbiamo però a di lui carico fatti tali dai quali si possa dedurre che egli avesse un animo così perverso da abbandonarsi ad un orribile eccesso.

Ma, continuava il difensore, posto anche che a fronte delle fatte osservazioni l'Endrizzi si dovesse ritenere come autore della morte del Battocletti, si potrebbe ancora dubitare che in questo fatto egli abbia agito colla pravità d'intenzione voluta dalla legge per costituire il crimine di omicidio. Vero è che, avuto riguardo al numero ed alla qualità delle ferite riportate dal Battocletti, questo dubbio potrà sembrare strano; tuttavia esso potrebbe sotto un altro aspetto essere giustificato. La stessa circostanza che l'Endrizzi avrebbe in un modo tanto barbaro inferocito contro un individuo a lui sconosciuto e del tutto innocuo fa sospettare che egli nel momento in cui commise il misfatto non fosse nel pieno uso della sua ragione; perché non è presumibile che un uomo senza alcun immaginabile motivo abbracci il deliberato proposito di togliere la vita ad un suo simile. Non è nuovo nè inaudito nella storia l'esempio di un uomo, il quale bollente ed iracondo si lascia momentaneamente accecare da un impeto di sdegno, che alla vista del sangue si sente agitato da una prepotente convulsione che lo spinge anche contro sua voglia ad inferocire; ed io vi confesso che amo meglio di vedere nell'Endrizzi anziché uno scellerato, il quale ha la decisa volontà di macchiarsi di un omicidio per il solo diletto di uccidere, un infelice forsennato, il quale, trovata forse nel Battocletti qualche resistenza, non seppe più resistere all'impeto dell'ira, e trasportato fuori di sé si abbandonò ad un eccesso senza saperlo, e che certamente non avrebbe commesso se fosse stato nel pieno uso della sua ragione.

Le stesse particolarità narrate da Giovanni Tamè, il quale ci disse che l'Endrizzi, anche dopo che il Battocletti era fatto cadavere, continuò ad infierire contro di lui con calci e pugni, sono di tale natura che io per l'onore dell'umanità non so persuadermi che vi possa essere un individuo capace di commetterle nel pieno uso dei suoi sentimenti. Sviluppate queste osservazioni, il sig. difensore conchiudeva che quand'anche colle stesse non si potesse allontanare dall'Endrizzi la prova della colpa, egli sperava però che potessero servire a diminuire la pena essendo per lo meno fuori di dubbio che l'Endrizzi doveva trovarsi in tale stato di alterazione di mente e di animo da meritare piuttosto il compianto che il rigore. Ed enumerando qualche altra circostanza mitigante lo raccomandava possibilmente alla clemenza dei giudici.

Accordata la parola all'avvocato dott. Ducati difensore di Giovanni Tamè e di Vigilio Tamè, così si espresse: io sarò breve nella mia difesa siccome anche la proposta del pubblico Ministero decampò molto dall'accusa. Tuttavia circa il fatto più grave non posso dividere le opinioni da esso esternate; non posso ritenere sienvi indizi sufficienti onde sciogliere dall'accusa Giovanni Tamè per insufficienza di prove, anziché pronunciare la sua innocenza. Dal momento che il fatto successe repentinamente, ed al momento che tutto quello che ha deposto Giovanni Tamè corrisponde alle risultanze processuali, io credo che si debba prestare piena fede alle sue deposizioni. O che si deve prestar fede alle deposizioni di Giovanni Tamè, o che non vi si deve: la narrazione che esso ci ha fatta non fu inventata e dobbiamo dire è vera: e se anche vi fossero delle circostanze che facessero dubitare, non vogliamo darle un'interpretazione diversa, giacchè pella massima parte quel racconto è consentaneo alle deposizioni dei testimonii. E qui il signor difensore riepilogava la narrativa del suo difeso Giovanni, facendo risaltare la circostanza che quando questi arrivava al cortile Martini le grida del Battocletti si facevano più fioche, e si erano ormai sentiti i colpi giusta le deposizioni di Vigilio Tamè. Altro argomento desumeva dalla perizia, la quale ritenne che fu una sola mano a commettere quel crimine. Dimostrava risultare solo per la deposizione dell'imputato stesso la sua presenza sul luogo: e che non è innocente soltanto colui che cerca distorre un altro dal crimine, ma anche quegli che arriva tardo per impedirlo, e che perciò indipendentemente da lui viene commesso. Passava quindi a comprovare che le macchie sul vestito non significavano una correità, perché era a due passi dal letamaio e perché aveva preso pel braccio l'Endrizzi; e perciò potevano provenire dall'accidente, dalla compagnia, e non dall'aver messe le mani addosso all'interfetto; né maggior peso doveva darsi per la macchia nella fodera delle maniche. Osservate, diceva, che quella macchia è ancor viva, che non è sul fustagno ma sulla fodera di lino; e se il Giovanni Tamè avesse fatto lavare il vestito per distruggere le tracce, essa sarebbe cancellata. Giovanni Tamè non fu per molto tempo negativo; arrestato il 26 marzo, si fece introdurre dal giudice a dire la verità. Per tutto ciò credo che deve essere assolto come innocente. Quanto al crimine di aiuto prestato ai delinquenti, è questa una incolpazione che venne data dalla Procura qui al dibattimento, e che non è sussistente. Lo desume il pubblico Ministero dalla circostanza che vorrebbe avesse Giovanni Tamè cooperato colla sua presenza ad incoraggiare l'Endrizzi per consumare il delitto. Se si considera che, quando arrivò il Tamè nel cortile Martini, il tutto era già consumato, che si fermarono poco nel cortile, che i colpi furono uditi prima che vi arrivasse per cui è a ritenersi che venissero dati dal Battocletti stesso negli uscii di casa Martini colla speranza che gli si aprisse; se si considera la circostanza che l'Endrizzi gli aveva raccomandato il silenzio, si vedrà che manca la prova soggettiva, ed io credo non possa neppur sussistere sospetto a carico del Giovanni Tamè.

La Corte pronunciò sentenza colla quale dichiarava essere il Domenico Endrizzi colpevole del crimine di omicidio; doversi sciogliere il Giovanni Tamè per insufficienza di prove dall'accusa del detto crimine; doversi finalmente tanto il Giovanni Tamè quanto il Vigilio Tamè assolvere dal crimine loro imputato di rapina e dichiararli innocenti.

Il Domenico Endrizzi veniva dalla Corte condannato alla pena di anni 20 di carcere duro. Questa sentenza era appoggiata ai seguenti motivi. Due erano i fatti su cui versava l'accusa contro gli imputati, cioè,

1. L'interfezione di Giovanni Battista Battocletti di Cavareno avvenuta nella notte sopra il 25 marzo p.p. fra le 12 alle 2 di cui erano indiziati Domenico di Romedio Endrizzi, e Giovanni fu Vittore Tamè di Dermulo; e-

2. Una rapina a danno di Giovanni Salazer di Revò praticata tra le 11 alle 12 della notte dei 13 febbraio ultimo scorso fra Dermulo e Revò, per cui erano chiamati a rispondere il detto Giovanni Tamè e Vigilio fu Giuseppe Tamè pure di Dermulo.

Ad 1. E’ constatato pel deposto di più testimonii che la mattina del 26 marzo anno scorso veniva ritrovato nel cortile della casa disabitata di Emilio Martini di Dermulo un cadavere, che fu poi riconosciuto essere di Giovanni Battocletti di Cavareno, il quale verso le ore 11 di quella notte era partito dal suo paese per dirigersi a Trento, come è stabilito per la giudiziale ispezione e perizia; che in questo cadavere si riscontrarono nove ferite ed una contusione, cioè una alla mano destra con recisione dell'arteria ulnare, le altre alla testa; sei, compresa quella alla mano, prodotte da istrumento tagliente adunco, tre da istrumento contundente e lacerante, una da istrumento contundente, quella alla mano giudicata grave con pericolo di vita, e relativamente mortale ove pronto non fosse il soccorso dell'arte, cinque leggiere, tre gravi, e quella alla regione occipitale destra assolutamente mortale, essendo fratturato l'osso del cranio che produsse un pronto stravaso sanguigno ed una violentissima commozione cerebrale, che fu causa subita ed unica della morte. Fu altresì rilevato che attorno al cadavere vi erano varii sassi di diversa dimensione, ed uno specialmente assai voluminoso intrisi di sangue; che la faccia dell'infelice era tutta sfigurata, e che avea attaccate delle piume di gallina, delle quali ve ne erano pure aderenti ai sassi, come fu rinvenuto forzato l'uscio del pollaio ed ammazzate due galline. Fu pure rilevato che le ferite da taglio dovevano essere state causate da un solo istromento, e quindi da un solo individuo, e che dallo stesso poterono essere state causate anche le ferite lacero-contuse, ove, come sembra, fossero susseguite alle prime.

Il numero e la qualità delle ferite, nonché la particolare sevizie con cui fu perpetrato il fatto, spiegano manifestamente nell'autore l'intenzione di uccidere, e perciò lo stesso si qualifica al crimine di omicidio previsto dal § 134 e 135, n.4, Cod. pen. Molti e gravi erano gli indizii che emersero a carico di Domenico Endrizzi, che si mantenne costantemente negativo.

a) Ammette egli stesso che in quella notte, trovavasi fuori di casa assieme al coaccusato Giovanni Tamè, e che verso alle ore 11, od 11 e mezzo, partiva dalla bettola di Pietro Emer; sebbene nei primi suoi costituti lo avesse negato, ha pure ammesso che, quantunque giorno di festa, deteneva una podina ferma in manico bene affilata e tagliente, che a suo dire adoperava per far manichi da scuria, podina che esiste in giudiziale custodia, e che dai periti fu giudicata attissima a produrre le ferite da taglio che furono riscontrate sul corpo del Battocletti; tale possesso nell'Endrizzi è altresì confermato dal coaccusato Giovanni Tamè. Sussiste perciò l'indizio del § 138 n.1 e ciò tanto più che in quel giorno ed in quelle ore non era punto giustificato ed anzi vietato il possesso.

b) Indossava in quel giorno per sua stessa ammissione un paio di calzoni e giacchetta della stessa qualità di fustagno affatto nuovi, e sopra i medesimi, benché fossero stati sottoposti a lavatura, si riscontrarono dai periti molte e varie macchie di sangue in tutte le parti.

Erasi verificato nell'ispezione giudiziale che sul poggiuolo della casa Martini sovrapposto al cortile vi erano estesissime macchie di sangue, nonché sulla sparangola; locchè faceva dedurre che il primo scontro avvenuto fosse su quel poggiuolo, non essendosi trovate traccie di sangue sulla scala, e che avesse avuto luogo un dimenamento essendosi anche rinvenuto presso il cesso il cappello del Battocletti e la corda relativa. La recisione dell'arteria ulnare portava la conseguenza di un forte spargimento di sangue. L'uccisore doveva perciò essersi molto lordato ed avere avuto uno stretto contatto coll'infelice; e ciò tanto più che anche attorno al cadavere si rinvennero alcune carte che portava seco il Battocletti, e varii pezzi di torta [torta di patate, come risulta in altra parte] che aveva seco presi partendo da casa. Le molte, estese, e recenti macchie di sangue sui vestiti dell'Endrizzi ed anche sulla podina costituiscono un secondo indizio previsto dal § 138 n.9 Regolamento di procedura penale.

c) Perquisiti i calzoni e la giacchetta, furono trovati umidi e lavati sebbene affatto nuovi, e così pure raschiata la podina; ma ad onta di ciò si verificarono, come si disse, indubbiamente le traccie di sangue; l'accusato cercò dunque di distruggere le traccie dello stesso, ciocchè costituisce l'indizio previsto dal succitato paragrafo n.11 Regolamento procedura penale. Conoscendo l'importanza e la gravità degli indizii accennati a che pretese l'accusato di far credere che nel giorno suddetto verso le ore 1 alle 2 pomeridiane, andando dall'osteria di Giacomo Endrizzi verso casa sua, vide sulla strada un piccolo cane sconosciuto, che gettatogli contro un sasso rimase morto, e che presolo da terra lo portò a casa ove collocatolo sul suolo in un avvolto terreno, si mise a levargli la pelle colla podina, ed in tal modo si lordava i calzoni e la podina, non però la giacchetta; che per questo nettò i primi con acqua e pulì la seconda, adducendo che la giacchetta si deve essere bagnata quando la pose sopra una tavola, ove per solito vi è un fiasco dell'acqua, che deve essersi rovesciato. Questa sua introduzione, oltrecchè si appalesa per sè stessa inverosimile ed insussistente, viene smentita dai risultati dell'ispezione giudiziale e dai rilievi in proposito fatti: nessuna traccia di sangue fu trovata sul suolo dell'avvolto; invano si cercò intorno alla casa ove l'accusato vorrebbe poi aver gettato il cane e la pelle, e per di più dicono i periti, che, ammesso anche che l'accusato avesse fatta la pretesa operazione, non poteva per di dietro lordarsi i calzoni, come non poteva essersi lordata la podina nel manico e nella parte interna essendo diviso in due pezzi, ciocchè invece poteva succedere col ferire un uomo che fosse in piedi. Oltre essere smentito dai rilievi premessi in questa sua introduzione, trova lo stesso una smentita ulteriore nel deposto di varii testimonii. Luigi Inama, Romedio Emer ed altri che lo videro dopo la pretesa operazione ancora di giorno, non osservarono alcuna traccia di sangue sui suoi calzoni, ed anzi la escludono. Domenico Endrizzi poi ha una distinta capacità a fatti di sangue. Oltrecchè egli fu altra volta punito per leggier ferimento, le informazioni del suo e dei limitrofi comuni nonché di molti testimonii, ce lo dipinsero come un giovane fiero, attaccabrighe prepotente, e che incute timore, per cui molti che ricevettero da lui insulti e minacce, e malitrattamenti si astennero appunto per timore dal portare denunzia. Ma oltre il concorso di tutti i premessi indizii emergevano altresì a suo carico tali e tante circostanze, che ad esuberanza era costituita la prova della sua reità in base ai paragrafi 279, 280, 281 Regolamento di procedura penale; e ne sorgeva un pieno convincimento da non poter elevare il benché minimo dubbio sulla stessa. Ammessa pur anche che l'incolpazione datagli dal coaccusato Giovanni Tamè, per non essere lo stesso confesso, non possa essere calcolata come l'indizio previsto dal § 140 n.5 Regolamento procedura penale, la stessa però era circostanziata, ed in quanto riflette l'operato dall'Endrizzi così corrispondente alle altre emergenze, che la stessa doveva essere considerata tuttavia come un importante amminicolo di convinzione.

Infatti Giovanni Tamè depose che dopo sortiti dall'osteria verso alle ore 11 alle 11 e mezza girarono alcun tempo pel paese; che essendo già passata la mezzanotte, mentre esso si soffermava sullo stradone per un bisogno, l'Endrizzi gli era di alcuni passi distante, che sopravvenuto un uomo sconosciuto dalla parte di S. Zeno lo oltrepassava, e che giunto di fronte all'Endrizzi, costui sortiva con espressioni minacciose; che lo sconosciuto datosi alla fuga, si riparava nella casa Martini disabitata per cercar soccorso picchiando agli uscii; che tosto l'Endrizzi lo inseguiva a cui in brevi istanti esso Tamè gli teneva dietro, giungendo alla scala quando l'Endrizzi gettava quell'uomo dal poggiuolo sul letame nel sottoposto cortile, ove spiccato un salto l'Endrizzi stesso lo percuoteva con sassi sul capo, ed anzi con uno molto voluminoso; che esso voleva stornarlo ma troppo tardi soggiungendo l'Endrizzi «quello che è fatto è fatto» e che già in sulle prime si era accorto di avere preso uno sbaglio, ritenendolo altra persona, ma ormai aveva voluto finirlo; che indi assieme partiti si diressero verso la fontana, essendosi esso alquanto soffermato a cercare la fascia che avea perduta, e che poscia raggiuntolo passarono sotto il portico di Giovanni Endrizzi Bagoz, ove Domenico Endrizzi si lavava le mani intrise di sangue, e che poco dopo si sono divisi. Le traccie estese del sangue appalesano manifestamente che quello che fu in particolar contatto col Battocletti fu senza dubbio l'Endrizzi, che solo aveva in mano l'istromento che apportava le ferite da taglio. Il testimonio giurato Vigilio Tamè, le cui deposizioni furono prelette, che udì, come molti altri, i lamenti di un uomo che gridava: Oh Dio! aiuto: che vide quest'uomo correre alla casa Martini; che sentì picchiare agli uscii; che vide subito inseguirlo un individuo che, sebbene nol possa giurare, ritenne dal portamento, dalla statura e dal complesso della persona per Domenico Endrizzi, splendendo a quell'ora la luna; che indi vide susseguire al secondo un terzo individuo, che ritenne per le stesse ragioni essere Giovanni Tamè; che dopo alcuni lamenti che si facevano sempre più fiochi udì una quiete: il testimonio Giovanni Endrizzi che pure in quella notte, già oltre le 12 avendo udito i lamenti provenienti dalla casa Martini, sentiti anche dal di lui figlio Nicolò, e che passata una mezz'ora udì due persone avvicinarsi verso casa sua, ed andato alla finestra le vide passare sotto il portico per dirigersi alla fontana, che sebbene nol possa giurare ritenne di ravvisare nelle stesse i due accusati; i detti tre testimonii, dicesi, combinano coi deposti di Giovanni Tamè ed oltre a ciò, se le deposizioni dei detti testimonii non valgono a stabilire l'indizio della presenza sul luogo, perché il riconoscimento non è attestato con piena sicurezza, concorrono però con molto peso a convalidare le altre emergenze. A tutto ciò si aggiunga che l'accusato nel giorno successivo si dimostrò agitato ed in timore di venire arrestato. Eugenio Zadra e Giacomo Bugnoni videro l'accusato la mattina successiva dei 26 marzo, e parlando seco lui del fatto avvenuto si mostrava semi confuso, con occhi infiammati da cui spuntava qualche lagrima, e loro esternava manifestamente il timore di venire arrestato come sospetto autore di quel fatto, sebbene se ne professasse innocente. Marianna Mendini ([Dovrebbe essere stata la figlia di Romedio Mendini che sposava Vittore Chistè] udiva dalla bocca dell'avo [era Bartolomeo Mendini, il nonno di Domenico] dell'accusato Endrizzi che questi aveva espresso consimili timori, e che l'avo stesso soggiungeva alla testimone, che quei mostri non credevano di maltrattare quel forestiero, ma che suo nipote era capace di negare; non così Giovanni Tamè. Nella prima perquisizione i calzoni furono sottratti alle ricerche della giustizia; e quando veniva perquisita la casa la seconda volta, la madre dell'accusato, come attesta il servo d'ufficio Giacinto Bais, lo scongiurava piangente che la lasciasse entrare in casa pria della Commissione per nascondere i calzoni insanguinati del figlio. Per un cumulo così preponderante d'indizii e d'amminicoli doveva perciò essere Domenico Endrizzi dichiarato colpevole del crimine imputatogli. Non si poteva poi ritenerlo colpevole della contravvenzione di pubblica violenza prevista dal § 468 Cod. pen. Mediante guasti maliziosi, come propose al dibattimento nelle sue conclusioni il pubblico Ministero, perché quantunque non possa sorger dubbio che autore degli stessi non sia stato l'accusato appunto perché il cadavere ed i sassi da cui era circondato avevano attaccate le piume delle galline, un tal fatto non era già stato eseguito nella mira di recare un danno malizioso al proprietario, ma evidentemente per divergere i sospetti, e per cercar di far credere che colto il Battocletti in furto flagrante fosse stato ucciso dal proprietario o suoi dipendenti. 2. L'accusato Giovanni Tamè già nel secondo suo esame dei 29 marzo, come nei successivi e nel dibattimento, fece la narrazione del fatto come più avanti si accennava, allontanando da sé ogni responsabilità e soggiungendo che esso non cooperò in alcun modo in quell'orrendo misfatto, da cui volea anzi stornare l'Endrizzi, ma troppo tardo, avendolo preso pel braccio sinistro due volte come disse nell'inquisizione, e una volta come disse al dibattimento, ma che l'Endrizzi gli si rivoltò minaccioso colla podina soggiungendo che quello che è fatto è fatto. Considerati materialmente i rapporti dell'accusato in relazione al fatto ed il di lui posteriore contegno, si presenterebbe a di lui carico un numero tale di indizii che servirebbero a costituire anche a di lui carico la prova legale della correità nel crimine premesso. Infatti emergerebbero per propria confessione la presenza sul luogo § 138 n.7; le traccie del sangue sulla giacchetta, benché due sole sulla manica sinistra ed una sulla fodera interna della spalla destra § 138 n.9, rilevate dalla giudiziale ispezione: la lavatura della giacchetta stessa operata la mattina del 26 marzo, e ciò per propria confessione § 139 n.11 e finalmente il di lui carattere e temperamento di uomo ardito ed attaccabrighe, particolarmente se alquanto bevuto, come lo era in quella notte al pari dell'Endrizzi; a tutto ciò si aggiunga che nel primo suo esame disse di essere andato a casa tosto sortito dalla bettola Emer, e di avere indossato altra giacchetta; che volle giustificare la esistenza delle macchie adducendo che poteano provenire da colore, ciocchè sarebbe escluso dalla perizia; e che anche l'introduzione fatta al dibattimento che le macchie provenir poteano dall'aver portata nello scorso inverno una lepre sulle spalle non si presenta plausibile, tanto più che la stessa era in una sporta. Ad onta però di tanto apparato di circostanze, mancava nei giudici un pieno convincimento che Giovanni Tamè avesse effettivamente cooperato nell'esecuzione di questo fatto. Ove si consideri, che per le cose già dette non era seguito alcun concerto, giacchè trattavasi di un uomo che accidentalmente passava per la via ad entrambi sconosciuto; ove si consideri che il fatto fu del tutto repentino, locchè deve ritenersi come provato anche pel deposto di Vigilio Tamè e di Giovanni Endrizzi, e di altri, giacchè i lamenti e le grida dell'infelice durarono pochissimi minuti; ove si ponga riflesso, che pel deposto di Vigilio Tamè il primo ad inseguire il Battocletti sarebbe stato l'Endrizzi, a perciò se anche il secondo gli tenne subito dietro non potea ancor supporre quali fossero le intenzioni del compagno sorte appunto sul momento, e tantomeno se fossero così micidiali; se si consideri, che il di lui racconto anche nella parte che allontana da sé ogni responsabilità non ha l'impronta della falsità, sorgeva nell'animo dei giudici assai grave il dubbio sulla di lui colpa, e perciò come per le suaccennate emergenze non potea essere dichiarato innocente, e così si trovava di scioglierlo dall'accusa per insufficienza di prove. In quanto poi alla subordinata proposta del pubblico Ministero fatta nelle sue conclusioni, che cioè il Tamè fosse dichiarato colpevole del crimine di aiuto prestato ai rei di crimine, previsto dal § 214 Codice penale, e ciò perché ritenea provato che avesse cooperato a violentare l'uscio dell'avvolto, ad ammazzare le galline, ed aspargere le piume sul volto ed attorno al cadavere del Battocletti, e a far così supporre che l'interfezione dello stesso avvenuta fosse perché colto in flagranti nel commettere un furto, e quindi nel prestare aiuto per deviare gl'indizii e per nascondere il vero colpevole: il Tribunale non trovava di accoglierla, e ciò perché non è in alcun modo provato che esso abbia a ciò prestata la sua cooperazione; sembrando anzi verosimile che dopo separatisi alla fontana l'Endrizzi e il Tamè, il primo soltanto sia ritornato nel luogo a praticare questo secondo fatto, giacchè il Tamè ha deposto, che l'Endrizzi nel raccomandare ad esso minacciosamente il silenzio gli soggiungeva, che in quanto a lui avrebbe pensato al modo di far allontanare da sé ogni sospetto: perchè, ove ritenersi dovesse come provato un tal fatto a carico del Tamè, congiunto questo colle emergenze che stanno contro di lui, ne sorgerebbe piuttosto il convincimento che esso avesse effettivamente cooperato nell'esecuzione dell'omicidio, mentre solo all'autore principale o ad un correo potea interessare di agire successivamente e così presto in tal modo.

 

Sopra ricorso prodotto dall'avvocato Dordi difensore del Domenico Endrizzi, nel quale erano sviluppate le cose dette nella riferita difesa, L'i.r. Corte suprema in Innsbruck, Considerando che, accogliendo l'avviso che il possesso della podina non possa calcolarsi come l'indizio del § 138 n.1 relativamente alla lesione prodotta da stromento lacerante-contundente, giudicata causa assoluta dell'avvenuta morte; restano tuttavia gl’indizii § 138 n.9 11, i quali secondo il § 281, Regol. p.p. in concorso delle circostanze accennate nei motivi del primo giudice, autorizzano a ritenere raggiunta la prova per concorso di indizii: Considerando riguardo alla pena che molte e gravi sono le circostanze che stanno a carico dell'accusato; Con decisione 18 settembre 1858 n. 2273 ha trovato di respingere il ricorso e di confermare la reclamata sentenza per quanto concerne l'accusato Domenico Endrizzi, lasciandola intatta riguardo agli imputati Giovanni e Vigilio Tamè.

 

LO SCENARIO DEL CRIMINE

25 marzo ore 20.30 circa. Dopo cena Domenico esce di casa (6), incontra Giovanni Tamè proveniente dall’osteria dei fratelli Emer (7) dove si era trattenuto con Andrea Endrizzi, ed assieme raggiungono la chiesa (8) dove recitano il Rosario.



25 marzo ore 21.00 circa. Dopo aver recitato il rosario, Domenico e Giovanni escono dalla chiesa (8) e decidono di recarsi ancora all'osteria (7) degli Emer detti Cialiari.



25 marzo ore 23.30. Domenico e Giovanni lasciano l'osteria (7) degli Emer e risalendo la Pontara (D) raggiungono la bettola (5) di Giacomo Endrizzi che però era già chiusa;



26 Marzo Ore 00.30 - 01.00. Domenico e Giovanni discorrendo fra di loro si incamminano in direzione Taio, per la nuova strada commerciale (A). Giovanni si ferma per un bisogno fisiologico (B). In quel momento sopraggiungeva dalla parte di Sanzeno l'ignaro Giobatta Battocletti, il quale fu importunato e inseguito da Domenico fino alla casa proprietà di Emilio Martini di Taio (1), in quel periodo disabitata. Quando Giovanni raggiunse i due, Domenico stava già sferrando gli ultimi colpi mortali alla vittima. Le tre persone che si avvicinavano alla casa Martini furono notate da Vigilio Tamè che abitava nella casa contigua (2)



26 marzo ore 1.30. Domenico e Giovanni lasciano il luogo del delitto (1) ed attraversando il prato sotto lo stradone (A) e passando sotto il portico (3) della casa di Giovanni Endrizzi Bagoz, raggiungono la fontana (C) dove Domenico si lava le mani insanguinate; i due furono visti da Giovanni Endrizzi e da suo figlio Nicolò.



26 marzo dopo le ore 1.30 Giovanni e Domenico si congedano, il primo raggiungerà la sua abitazione (4) poco distante dalla fontana, il secondo tornerà sul luogo del delitto (1) dove scardinava la porta del pollaio e uccideva alcune galline per fare in modo che si credesse che il Battocletti fosse stato ucciso perchè sorpreso a rubare i polli.



 

LA RAPINA AI DANNI DI GIOVANNI SALAZER DI REVO'

 

In seguito veniva dal pubblico Ministero data lettura anche del seguente atto d'accusa, che riguarda un altro fatto criminoso, di cui era imputato uno dei suddetti accusati. Mentre stavasi chiudendo il processo di inquisizione riferibile all'omicidio di Giovanni  Battista Battocletti, veniva separatamente trattata altra inquisizione, per titolo di rapina, avvenuta sulla strada fra Dermulo e Revò la sera del 13 febbraio a.c. in danno di Giovanni Salazer, ove emergevano dei lontani sospetti a carico dello stesso Giovanni Tamè e del suo cugino Vigilio Tamè. Progredite ulteriormente le indagini penali venne a stabilirsi a loro riguardo sussistere realmente un legale indizio per questo ultimo crimine, e fu infatto emesso in questo rapporto il conchiuso di accusa, 3 corrente mese, che colpisce entrambi. Il Salazer era nella sera suddetta capitato nell'osteria di Giacomo Endrizzi di Dermulo mentre vi si ballava. Fra le persone che là si trovavano eranvi i due accusati Giovanni e Vigilio Tamè, Vettore Chistè, Domenico Endrizzi e una guardia di finanza. Siccome il Salazer era alquanto importuno, perché alterato dal vino, e perché alla fine del ballo si rifiutava di corrispondere la tangente di cui fu caricato, ebbe qualche scambio di parole tanto con Domenico Endrizzi quanto con Giovanni Tamè; però la cosa non procedette più oltre, e dismesso il ballo circa alle ore 10 o poco più, quelli che vi aveano presa parte si fecero ad accompagnare fino alle ultime case verso Taio i musicanti che erano di quest'ultimo paese. Intanto il Salazer montato sul mulo, che esso avea, colla assistenza di Vettore Chistè, si mise in viaggio verso Revò. Giunto però a poca distanza da Dermulo, e precisamente poco oltre al bivio della strada fra Sanzeno e Revò, fu, come egli racconta, raggiunto da due o tre individui provenienti dalla volta di Dermulo, uno dei quali pronunciando le parole: o bezzi o la vita, gli calò con un palo un colpo, da cui fu colto al braccio sinistro, e rovesciato alla parte opposta dal mulo Quando fu per terra, sentì una voce: ammazzalo quel mostro da Revò, e contemporaneamente fu vibrato un colpo di palo, dal quale non restò per fortuna colpito, essendosi quegli che lo menò espresso: egli è già morto. Finse infatti di esserlo, ed approssimatisi a lui gli aggressori gli frugarono nelle saccocce, gli levarono il taccuino, nel quale si contenevano una banconota da Fior. 10, una da Fior. 5 ed una da Fior. 1. Egli si fermò sul luogo ancora un'ora e mezzo, temendo, che i suoi aggressori fossero in guardia, ripigliò quindi a piedi la strada verso Revò, essendo il mulo proceduto solo senza i fornimenti [finimenti] prima di lui, e giunse a sua casa, circa alle ore 2. I giurati deposti del Salazer, comunque fosse egli in quella notte alterato dal vino, sono da accogliersi nella loro integrità, perché sostenuti dalle altre emergenze processuali. Giusta la visita medica, fu il giorno successivo riscontrato nel Salazer un gonfiamento dolente all'articolazione dell'avambraccio sinistro sull'omero prodotto da colpo vibrato con forza, come da un legno. Avea una lieve abrasione alla punta del naso, ed altra alla sua radice, nonché altra abrasione alla parte destra del collo. Da queste tracce di lesioni si deduceva sulla verisimile sussistenza del fatto, così come lo espose l'offeso Salazer. La mattina del 14, provenendo persone da Cles a Dermulo, trovarono sulla strada nella località ove Giovanni Salazer depone di essere stato rapinato, i fornimenti di un mulo, e una barila vuota, oggetti questi riconosciuti di sua spettanza. Il di lui padre, Pietro Salazer, ebbe la mattina il racconto dal figlio conforme al fatto da questo esposto in Giudizio, e venuto verso Dermulo osservò un calpestio della neve, nel punto della seguita aggressione; nel prato vicino oltre la strada vide giacere due pali, e arrivato a Dermulo trovò presso l'oste i fornimenti del mulo, che vi erano stati depositati dagli individui di Cles, che erano passati sul luogo prima di lui. L'aggresso [l’aggredito] non conobbe i suoi offensori, attesa la oscurità della notte, e perché erano d'altronde ricoperti di un fazzoletto, che loro calava sulla faccia. Avuto riguardo alle differenze, che in quella sera aveva il Salazer avute nell'osteria di Dermulo, poteva aversi motivo a sospettare che altri degli individui, che eransi trovati colà, potessero essere stati gli autori. Questo sospetto, del tutto vago, ebbe in progresso di tempo una consistenza. Avvenuto l'omicidio in danno di Giovanni Battista Battocletti, si fece durante il relativo processo sentire in paese una voce, la quale attribuiva a Giovanni Tamè ed a suo cugino Vigilio Tamè il fatto dell'aggressione del Salazer. Seguite queste voci, venne rilevato che Romedio Mendini, come esso giuratamente depone, quindici giorni dopo il fatto, ritornando egli con Vigilio Tamè da Tajo, ebbe questi, essendo un po' bevuto, dopo avere millantato le sue bravure, a dichiarare che esso e suo cugino erano stati a slegnare (bastonare) quello di Revò. Fu pure rilevato, che pochi giorni prima che succedesse l'omicidio del Battocletti ritornando Giovanni Tamè da Sanzeno in compagnia di Vettore Chistè, [non era il Chistè ma Pietro Emer] essendo il Tamè alterato dal vino, ebbe questi a manifestargli che a bastonare quello di Revò era stato lui e Vigilio Tamè. Tali manifestazioni, che hanno il carattere di una stragiudiziale confessione, trovano appoggio nella circostanza che tosto dopo la partenza di Giovanni Salazer dalla osteria in Dermulo ritornarono in quella Giovanni e Vigilio Tamè cogli altri che aveano accompagnato i sonatori, e che pochi istanti dopo sortirono prima il Giovanni Tamè e quindi Vigilio Tamè, i quali, quando si fossero messi sulle tracce del Salazer, potevano anche raggiungerlo. I due accusati non sanno sulla apposta imputazione addurre giustificazioni a difesa, e posto riguardo al complesso delle processuali risultanze devono pertanto riguardarsi come urgentemente sospetti del crimine di rapina, preveduto dai paragrafi 190 e 194, Codice penale generale. Alla base delle quali cose tutte e di conformità ai conchiusi di codesto inclito i.r. Tribunale circolare succitati, si porta quindi accusa:

a) contro Giovanni Tamè, di anni 30, ammogliato, sagrestano, possidente, e

b) contro Vigilio Tamè, d'anni 26, celibe, guardaboschi tutti e due di Dermulo; per crimine di rapina punibile in entrambi giusta il § 194, Codice suddetto.

 

L'INTERROGATORIO DEGLI IMPUTATI

Giovanni Tamè

Presidente. Veniamo ora al secondo fatto. Che cosa avete fatto e come avete passata la sera dei 13 febbraio p.p.

Acc. Quella sera fui all'osteria di Giacomo Endrizzi ove abbiamo ballato molto: v'erano parecchi, e fra gli altri uno di Revò. Questi era piuttosto importuno perché aveva bevuto molto, e voleva ballare lui solo: ebbe dei dispiaceri nella sala perché essendosi fermato nel mezzo impediva agli altri di ballare. Domenico Endrizzi gli disse: tireve endrio (indietro) o ballè, e lo toccò su d'una spalla, ed altri gli diedero delle spinte; allora costui cominciò a bestemmiare e si arrabbiò. Poco dopo si trattava di pagare i suonatori e toccava, credo, ad ognuno car.[antani] 20; ma quello non voleva saperne di pagare, e tornò ad inquietarsi ed offendere. Finito il ballo, siamo andati coi suonatori per il paese a fare una serenata, restando a casa quello di Revò e due altri. Siamo stati poco fuori di casa e quando siamo ritornati esso più non v'era.

Pres. Quello di Revò racconta il fatto diversamente, come avete sentito dall'atto d'accusa, e stando al suo racconto siete indiziato voi e vostro cugino Vigilio Tamè.

Acc. Io non saprei come si possa dire che sono stato io: non ho mai fatto tali cose, e finchè il Signore mi terrà la sua mano in testa non le farò. Né mi passano per la testa.

Pres. Quando siete ritornato all'osteria?

Acc. Presto.

Pres. Risulta che voi altri due foste partiti i primi dall'osteria, circa un quarto d'ora dopo di quello di Revò, e tosto partito voi, sarebbe partito anche vostro cugino: si sospetta poi perché erano successe quelle dispiacenze; quello di Revò fu petulante e non volle pagare.

Acc. No, perché anzi cercai di far terminare prima il ballo, e di pacificare gli altri per impedire dispiacenze.

Pres. Vi siete mai trovato con Pietro Emer?

Acc. Si, una sera a Sanzeno all'osteria, e siamo ritornati assieme.

Pres. Questo Emer dice che tornando dall'osteria gli avete raccontato che voi e vostro cugino Vigilio avevate maltrattato quello di Revò, perché non voleva pagare.

Acc. E’ bensì vero che alterati dal vino si dicono delle stramberie, ma io non son persuaso d’aver detto questa.

Pres. Vigilio Tamè avrebbe fatta la stessa confidenza a Romedio Mendini, d'essere cioè stato esso con voi a bastonare quello di Revò. Come avvenne che voi due raccontaste a due testimonii diversi la stessa cosa?

Acc. Di questo non so che dire; ma il Mendini è capace di dire questo ed anche altro, e perfino di inventarsi la cosa.

Pres. Ma che il Salazer sia stato maltrattato è un fatto, che fu rilevato giudizialmente...

Acc. Sarà, ma io non so che dire.

 

Vigilio Tamè

Presidente. Come avete passata la sera dei 13 febbraio p.p.?

Accusato. Fino alle 10 e mezzo circa fui all'osteria di Giacomo Endrizzi a ballare; vi erano diversi, fra i quali certo Chistè ed uno di Revò, il quale ultimo era ubbriaco. Ballando impediva gli altri e disturbava, per cui ebbe un piccolo alterco con Domenico Endrizzi che lo respinse, intimandogli di ritirarsi perché volevano ballare, ma esso rispondeva invece di volere star là e di ballare da solo. Terminato il ballo verso le 10 e mezzo, si trattava di pagare i suonatori: toccava una svanzica per cadauno; quello di Revò si rifiutò di pagare, e poi offerse un gabbanoto (pezzo da sei carantani). Uscimmo allora dall'osteria ed abbiamo fatti alcuni balli nella strada, mentre rimanevano nell'osteria con quello di Revò l'ostessa e Vittore Chistè. Siamo ritornati di poi nell'osteria dietro invito dell'oste, ma quello di Revò era di già partito, e noi ci trattenemmo quel tanto che bastava per bere una bottiglia di vino che ci diede l'oste. Uscì poco dopo mio cugino Giovanni Tamè; poscia io me ne andai, e fatto un giro pel paese, com'è mio costume per la sorveglianza del fuoco, andai a casa mia.

Pres. Quello di Revò fu inseguito e gettato giù dal mulo; si finse morto, ed intanto gli fu levato il portafoglio: risulterebbe foste stato voi con vostro cugino Giovanni Tamè a maltrattarlo.

Acc. Io non ho fatto niente: sarà vero quello che successe al Sallazer: ma nessuno potrà dire che io abbia mai fatto niente di male, e sono arrivato all'età di 26 anni senza incorrere in pregiudizii.

Pres. Romedio Mendini dice che gli avete confidata la cosa e che aggiungeste di essere pentito per non averlo gettato nel torrente Noce.

Acc. Conosco il Mendini, [probabilmente inteso come, siccome conosco che tipo è il Mendini] ma non gli feci mai alcuna confidenza. Questa è una vera impostura.

Pres. Avete avuti mai dispiaceri col Mendini?

Acc. Si, per certe piante ch'io ho misurate, e ch'egli aveva rubate. (Racconta il fatto per esteso, il quale essendo estraneo all'argomento, crediamo di non dover riportare).

IL RACCONTO DI GIOVANNI SALAZER DETTO POZZANGHER

Nel giorno 13 febbraio, che fui a Tajo a condur un barile di vino all'oste Mendini, [forse si trattava di uno dei figli di Bartolomeo di Dermulo, Giovanni o Bartolomeo che a quell’epoca abitavano a Taio] partii circa alle due da Revò, ed arrivai sull'imbrunire. Bevetti un frachel (due bicchieri circa) [una frachela corrispondeva a 0,35 litri] di vino a Dermulo, ed un altro a Tajo, in tutto circa una mezza [mossa]; poscia ritornai a Dermulo nell'osteria di Giacomo Endrizzi, ove arrivai verso le 7 e mezza e mi fermai fino alle 11. Colà vi erano dei suonatori e si ballava; ed io tornai a bere dai 5 ai 6 fracheli, ma ne dava qualche bicchiere agli altri. Non conosceva gli altri che vi erano. Non mi pareva di essere ubbriaco, bensì un poco allegro; ma per me basta un frachelo per essere allegro. Ballai un poco ancor io e perciò mi venne chiesto che pagassi una svanzica pei suonatori; ma ho detto di no, giacchè se uno va in un'osteria ed offre ad un altro un bicchiere di vino, non per questo chi lo riceve è obbligato a pagarlo,[?] e così io non mi intendeva di dover pagare i suonatori. Non so chi fu che mi chiese la svanzica, perché non ho sentita che una voce che diceva: se non paga la svanzica, pagherà il di più. Degli imputati vi era il giovine (Domenico Endrizzi) e mi sembrerebbe anche gli altri due. Ebbi un contrasto non so con chi pel ballo, e mi venne detto: tirete for dei pei (fuori dei piedi) ed al certo non fu il giovine, perché esso mi invitò al ballo. Partirono quasi tutti dall'osteria assieme ai suonatori, ed io mi gettai su di una panca a parlare e verso le 11 feci per partire. All'uscire dalla porta ricevetti un urto che parea dato per gettarmi dal poggiuolo, ma io mi tenni al muro; poscia montai sul mulo, e me ne andai bel bello.

Presidente. Ma se all'osteria non vi era che la moglie dell'oste che vi faceva lume, e Vittore Chistè che era nell'altra stanza, chi volete che vi abbia data una spinta sulla porta dell'osteria?

Testimone. Non saprei chi, ma una spinta mi venne data per gettarmi dal poggiuolo. Strada facendo fui sorpreso da 2 o 3, mi fu dato un colpo nel braccio, fui tratto giù sulla neve e percosso con un palo (che hanno rotto perché urtarono prima in terra) gridando: O la vita o i bezzi. Io stetti fermo perché mi credessero morto, uno disse: «dai a quel di Revò» e poscia mi gettarono dei sassi. Trovai che mi mancarono delle banconote; non posso dire che sieno stati essi perché potrei aver perduto il portafoglio, ma ho sentito mettermi le mani nelle saccoccie interne e rivoltarle: il portafoglio potrebbe darsi, come dissi pur ora, che l'avessi perduto nella neve cadendo. Mio padre il giorno dopo andò a cercarlo, e non lo trovò. Della mancanza m'accorsi solo a casa. Rimasi a terra un bel tratto; poscia m'alzai, non curando più di nulla, ed andai diritto a casa a piedi, perché non ho trovato il mulo, ed io fuggiva quasi per la paura. Dovetti stare in letto dagli 8 ai 9 giorni per le contusioni avute. Non potei sospettare sopra nessuno perché non li ho conosciuti, ed a quello che credo erano mascherati: erano in due, o tre: non potrei dire del vestito, né della statura, e mi devono avere inseguito perché non li ho incontrati. Da Dermulo al luogo dell'accaduto ci vorrà un quarto d'ora, e sono andato adagio, conforme vanno le bestie da soma. Dietro ricerca dell'avv. Ducati dice che sarà stato circa un'ora e mezza nella neve prima di ritornare a casa. L'accusato Giovanni Tamè rimarca di aver sentito che i denari li aveva perduti giuocando, e che non gli furono levati, e conchiude: questo non è stato mai il mio mestiere.

Ruaz Antonio, guardia di finanza.

Dice che quello di Revò era ubbriaco; che nel ballo disturbava gli altri: che non poteva stare sui piedi; che discorreva con sentimento sì, ma proprio bene nò; che essendo passato circa alle 12 e mezza non vide né il barile, né i fornimenti del mulo, né il palo, né l'uomo per terra, quantunque avesse battuto la strada maestra, sulla quale dovrebbe essere successo il fatto; che non sentì all'osteria la voce che minacciava il Salazer se non pagasse; e che lo stesso testimonio propose di finire la questione pagando ognuno qualche carantano di più.

 

Chistè Vittore

Depone che quello di Revò era ubbriaco, strapazzava la gente, e che quando si trattò del pagamento rifiutandosi di pagare una svanzica, offriva un gabbanotto dicendo petteve sui c...anca questo: aggiunge che quando partiva quello di Revò era lui solo all'osteria coll'ostessa che l'accompagnò e lo aiutò a montare il mulo, perché non era buono da solo, e che non vide nessuno a dargli delle spinte, ciocchè non può essere assolutamente.

 

Romedio Mendini

In una festa che io veniva da Tajo, Vigilio Tamè si unì meco e mi confidò che era stato lui e suo cugino Giovanni Tamè a petarghele (dargliele) a quel di Revò; ma non disse che gli abbiano tolti i danari, ed aggiungeva: se avessi saputo allora quello che so adesso l'avrei gettato nel Noce. Non so che cosa intendesse dirmi con questo: il Vigilio era bevuto, ma non ubbriaco.

L'accusato Vigilio Tamè osserva che queste sono calunnie; narra delle dispiacenze avute col testimonio per dei boschi e per una questione civile di un passo. Vengono lette le informazioni sul conto del testimonio che sono pessime. Nasce da ciò la discussione se debbasi a questo testimonio far prestare il giuramento. La Procura insiste, la difesa si oppone. Il Tribunale, ritenuto che, quantunque non consti giuratamente delle inimicizie, tuttavia sono verificati i dissapori, e ritenute le cattive informazioni, ha trovato di sospendere il giuramento.

Emer Pietro.

Ritornando una sera da S. Zeno con Giovanni Tamè dopo aver bene bevuto, ed essere entrambi ubbriachi, il Giovanni cadendo per terra disse: Noi non abbiamo paura da quelli di S. Zeno, perché gliele abbiamo date anche a quello di Revò. Non intendeva bene perché non parlava chiaro, e supposi fosse stato lui e suo cugino Vigilio. Aggiunse che hanno raggiunto quello di Revò sopra il prato, e ciò me lo ebbe replicatamente a dire. L'accusato Giovanni Tamè ritiene che il testimonio fosse ubbriaco, perché non sa di aver mai detto questo, e qualora esso pure fosse stato ubbriaco non avrebbe detto quello che non aveva fatto.

 

Endrizzi Giacomo.

Narra che quando accompagnò i suonatori raccomandò a sua moglie di mandar via quello di Revò, e che quando ritornò era già partito.

 

Endrizzi Rosa.

Quando accompagnò i suonatori, restò con quello di Revò e Vittore Chistè: depone che il Salazer era ubbriaco; che partì pel primo, che non vide altri all'osteria, e che non vide che abbia ricevuti degli urtoni.

 

Si legge:

a) l'esame di Luigi Torresani, [la persona che raggiunse Dermulo da Cles la mattina del 14 febbraio] ed altri che videro sulla strada il barile ed il basto;

b) la perizia sulle ferite del Sallazer che vengono dichiarate lievi;

c) fedina di Vigilio Tamè, negativa;

d) informazioni dello stesso, buone.

LA REQUISITORIA DEL PUBBLICO MINISTERO

..Passava poi il P.M. al secondo fatto cioè alla rapina, che si riteneva prima sussistente per le deposizioni del danneggiato, cui al dibattimento esso modificò nel sostanziale. Ammise anche d'aver perduti i danari, fu meno preciso, e cadde in contraddizioni: risulta che era molto ubbriaco, per cui rendesi dubbia la sua deposizione. Le abrasioni possono esser state cagionate dalla caduta. L'accusa sussisteva pel contrasto all'osteria, e per le deposizioni di Romedio Mendini e di Pietro Emer, ma va a svanire perché il primo non si potè ammettere al giuramento, ed il secondo era ubbriaco, e potrebbe anche darsi che fosse una millanteria di Giovanni Tamè. Per tutte queste circostanze, diceva il signor procuratore, ritengo non provato in senso legale il crimine di rapina, e mancando gl'indizii, cade la prova. – Ciò premesso, vengo a parlare della pena.

1. Domenico Endrizzi……….[vedi il primo crimine]

2. Giovanni Tamè ………..[vedi il primo crimine]; sia dichiarato innocente quanto al fatto della rapina, e

3. Vigilio Tamè venga dichiarato innocente pel fatto della rapina.

Accordata la parola all'avv. dott. Ducati difensore di Giovanni Tamè e di Vigilio Tamè, così si espresse: [vedi il primo crimine] Si diffuse poscia il signor difensore sopra il fatto della rapina, dimostrando non esistere gli estremi voluti per costituire quel crimine e conchiudeva domandando che venissero i suoi difesi dichiarati innocenti entrambi del crimine di rapina e Giovanni Tamè anche del crimine di correità in omicidio.

In quanto alla rapina. Giovanni Salazer depose bensì giuratamente che la notte del 13 febbraio p.p. partito sul suo mulo dalla bettola di Giacomo Endrizzi per recarsi a Revò, quando fu alla distanza di circa un quarto d'ora, fra le ore 11 alle 12, venne sopraffatto da due o tre individui, che fattagli l'intimazione, i bezzi o la vita, ricevette un colpo di palo che lo rovesciò dal mulo, che gli si menarono altri colpi, e che fattosi credere come morto, dalla saccoccia della giacchetta gli fu levato il taccuino contenente fior. 21 in B.N. [Banconote] come disse nell'inquisizione, o fior. 23 come depose al dibattimento. Sebbene i deposti del Salazer trovino qualche appoggio nella circostanza, che sul luogo la mattina seguente furono trovati il basto ed i fornimenti del mulo, e due pezzi di palo; sebbene sul Salazer sieno state riscontrate una gonfiezza al braccio sinistro e delle piccole abrasioni al naso ed al collo; sebbene il Salazer pel suo contegno alquanto petulante nell'osteria Endrizzi ove si ballò, e dove vi erano i due coaccusati Giovanni e Vigilio Tamè avesse potuto provocare un qualche risentimento; tuttavia non si ritenne di poter prestare piena fede ai suoi deposti, perché come risulta dal deposto di varii testimonii che in quella sera nella detta osteria si trovavano, il Salazer era quasi per intero avvinazzato, reggendosi a stento sulle gambe, e dandolo manifestamente a conoscere nel suo contegno; perché le offese in esso riscontrate potrebbero essere state conseguenza anche di una caduta dal mulo, come lo ammette anche la perizia: perché avrebbe quindi cadendo potuto perdere il taccuino; perché le sue deposizioni nell'inquisizione non concordano pienamente con quelle fatte al dibattimento, avendo detto nell'inquisizione che si sentì levare il taccuino mentre era per terra, mentre al dibattimento disse di essersi solo accorto della mancanza del taccuino quando era di ritorno a casa quasi due ore dopo, e di aver solo sentito a frugare colle mani nella saccoccia; perché si presenta improbabile, che se, come asserisce, stette un'ora e più in terra senza azzardare di alzarsi, non abbia messe le mani nella saccoccia per accertarsi se gli erano stati involati i danari; perché le sue deposizioni non concordano nemmeno col deposto degli altri testimonii mentre pretende che appena sortito dall'osteria, pria di salire sul mulo, trovava alcuni di quelli che erano pria nell'osteria, e che ricevette una spinta sul ponte della casa stessa, ma assistito dall'oste non cadde, e risulta invece, che quando esso partiva, tutti erano usciti coi suonatori, meno la moglie dell'oste e certo Vittore Chistè che lo assistette a salire sul mulo, non essendo da sé solo capace. Mancando la prova del fatto in linea oggettiva andavano a perdere ogni forza anche gli indizi contro gli accusati, i quali in ispecie si basavano alle confidenze che Giovanni Tamè avea fatte a Pietro Emer, e Vigilio Tamè, a Romedio Mendini, di avere cioè per le sue petulanze nell'osteria maltrattato assieme quel di Revò nella sera suddetta; confidenze che oltre essere deposte da isolati testimonii, non potrebbero del resto essere prese a gran calcolo, giacchè Giovanni Tamè nel momento in cui le fece era molto alterato dal vino, e da Romedio Mendini non si può prestar fede siccome assai male dipinto e vivente in relazione di inimicizia per dispiacenze con Vigilio Tamè, per cui non fu nemmeno vincolato con giuramento. Ciò premesso, il Tribunale trovava di assolvere dall'accusa pel crimine di rapina i detti accusati dichiarandoli innocenti, e conseguentemente anche dal pagamento delle spese processuali.